Domenica, 29 Dicembre 2024 06:52

La Biblioteca del lavoro: Fabrizio Gatti In evidenza

Scritto da Francesca Dallatana
Fabrizio Gatti Fabrizio Gatti

Visto da vicino. Slave market

Di Francesca Dallatana Parma, 29 dicembre 2024 -

Il motivo dell’immigrazione è lo schifo che c’è in Africa. Dio non si occupa di immigrazione. E se mai lo ha fatto, ha smesso da tempo.

Parola di migranti, alcuni sono i compagni di viaggio di Fabrizio Gatti, giornalista e scrittore. All’epoca della traversata d’Africa lavorava per L’Espresso.

Il reportage risale ai primi anni dieci del millennio. La prima edizione è datata 2007. Da allora le gomme dei camion continuano a sprofondare nel deserto. E le persone non hanno smesso di pensare l’Europa come la terra di un nuovo inizio.

La sabbia del deserto e la faccia sdrucita dal sole plasmano il giornalista in Bilal Ibrahim el Habib. La seconda identità arriva a viaggio terminato. Come persona di pelle bianca e italiana all’anagrafe non avrebbe potuto terminare la traversata d’Africa e accedere alla prima accoglienza riservata ai clandestini sopravvissuti al freddo del mare.

“Bilal. Il mio viaggio nel mercato dei nuovi schiavi”, edito da Rizzoli, è la cronaca di un tradimento: la bugia del lavoro che nobilita. Per l’esercito di riserva dalle ciabatte infradito di plastica non ci sono scarpe anti-infortunistica e dispositivi di protezione individuale. Alla maggioranza dei nuovi schiavi il mercato del lavoro riserva un pugno in faccia chiuso in una stretta feroce intorno alle chiavi del futuro.

Il lavoro nobilita per davvero. Ma quello riservato agli africani scalzi di questo libro non è lavoro. E’ sfruttamento. E’ furto legalizzato del tempo di vita. Inquinamento di un sogno.

Il viaggio è la fatica della vita. La meta del viaggio è il nuovo inizio della resurrezione sociale. Fin qui, le metafore.

Alla lettera, il viaggio è una prova di dolore e resistenza fisica prima che psicologica. Che cosa rimanga nella mente della finalità del viaggio non è dato sapere. La memoria tende a negare il trauma declinato in angoscia e dolore in nome della resistenza.

Ogni giorno uomini e donne si allontanano dai loro gruppi comunitari di appartenenza, lasciano le loro famiglie e cominciano la traversata dell’Africa.

In nome di un obiettivo, che chiamano Lampa.

Lampa è Lampedusa: la prima zolla d’Europa dopo l’Africa, dopo il confine d’acqua. “Approdare vivi a Lampedusa è come sopravvivere a un incidente aereo.

La maggioranza degli africani immigrati presenti sul territorio europeo sono testimoni della pista di sabbia verso il Mediterraneo. E’ un viaggio economicamente costoso.  Lo si paga con i soldi, spesso con la vita. Se lo si supera la sopravvivenza impone silenzio e oblio.

Bilal Ibrahim el Habib

E’ il viaggio nella sua crudeltà infinita a plasmare me”: Fabrizio Gatti diventa Bilal dopo avere attraversato il deserto, insieme ai migranti africani sotto le stelle del cielo alto ispirato alla ricerca di una vita dignitosa.

Vivere per capire. Solo così è possibile raccontare la gabbia di Lampedusa dove vengono ammassati i migranti raccolti dal nero del mare.

Per raccontare la vita all’interno di un centro di identificazione ai confini d’Europa, a Lampedusa, Fabrizio Gatti – Bilal ha bisogno di vedere. Anzi, di vivere da clandestino fra i clandestini.

Brucia la carta di identità italiana, indossa un giubbotto di salvataggio, si butta nel freddo delle onde, le braccia incrociate, le mani aggrappate alle spalle per non perdere il giubbotto. Chiede aiuto urlando fra i flutti e viene ripescato.

E comincia la galera.

Uomini in attesa del rimpatrio, del trasferimento oppure degli interrogatori da parte dei rappresentanti delle forze dell’ordine, in condizioni fisiche precarie cercano il sonno su giacigli scomodi e improvvisati.

Servizi igienici sempre intasati dai quali un costante flusso violaceo esonda e allaga pavimenti interni alle struttura in muratura e disegna una ragnatela di rigagnoli sul piazzale esterno, dove si fa la conta dei presenti. Non c’è una chiamata nominale ma un conteggio: file di dieci individui ciascuna.

Malattia, indisposizione fisica- per usare un eufemismo- e stanchezza mischiate insieme sono un cocktail di rassegnazione e disperazione cronica. Che inondano il sogno con il fango di impotenza e rabbia del quotidiano. La galera del centro non è una galera ma un luogo di identificazione e smistamento.

Durante gli interrogatori Bilal parla inglese, non risponde in arabo che conosce pochissimo ma che dice di non volere parlare. Si presenta come curdo. Socializza poco e osserva molto. La vita dentro il centro è dura. Attraversare il deserto per finire qui suona come una sconfitta. Ma il sogno rimane più forte della realtà.

La galera ha le stesse regole della competizione sociale. Le regole sono semplici e dure. E’ chiaro chi comanda. Altrettanto lo è chi deve eseguire gli ordini.

I diritti umani e civili rimangono nella filigrana dei noi detti.

Senegal, Mali, Niger, Libia.

Quando Bilal arriva a Lampa ha già attraversato l’Africa ed è rientrato in Italia. Alla cronaca di viaggio da infiltrato manca il capitolo ultimo della traversata: l’isola italiana, l’inizio della scalata a una nuova vita europea.

La cronaca proposta dal libro inizia molto prima che Fabrizio Gatti cominci a vivere con Bilal. E’ il viaggio africano a comporre la seconda identità del giornalista italiano.

I luoghi trasformano nel profondo i connotati delle appartenenze. Nel centro di identificazione di Lampa-Lampedusa a tradirlo è soprattutto la pelle bianca. A chi è affidata la conduzione del centro di identificazione sorgono dubbi e sospetti sulla reale provenienza del clandestino. Ma in un centro di identificazione il sospetto è all’ordine del giorno.

Durante la traversata africana, invece,  il giornalista si identifica come italiano.

L’attraversamento dell’Africa inizia da Dakar, capitale del Senegal, dove arriva in aereo.

Osservazione e descrizione dei luoghi contribuiscono ad ambientare lo spostamento sulla pista degli schiavi.

Dakar, Bamako, Niamey, Agadez, Dirkou, Madama. Nell’ordine: Senegal, Mali, Niger.

Poi, la Libia.

Il carattere di una città lo senti dai suoni”. Il giornalista restituisce ai luoghi colori, suoni e temperature. E la polvere.

Le persone, le parole e le loro paure tra coraggio e temerarietà impongono un affresco sociale di forte impatto emotivo.

Agadez è la sua autogare, dove dormono le persone che transitano dalla città alla ricerca di una possibilità di trasporto per il deserto, quindi per l’Europa. Sono stranded, persone arenate per sofferenza economica e per malesseri del corpo. L’autogare è uno spazio senza confini, dove sembra non esserci un inizio e una fine. E’ un luogo della mente prima che uno spazio fisico. Una illusione ottica che somma all’infinito spazio allo spazio.

Agadez è Soufiane, il mediatore tornato indietro dal nero del mare per paura di sprofondare agli inferi della fine. Il dodici per cento delle persone che partono dalle coste della Libia e dalla Tunisia non arriva in Europa. Soufiane raggiunge il mare ma ritorna nel deserto.

Dirkou è l’oasi degli schiavi. E’ un luogo nel quale ci si ferma oppure dove si ritorna dal deserto, se qualche cosa non ha funzionato. Dirkou ha la faccia di Sophie, la ragazzina strizzata in una maglietta ai minimi termini con la tessera sanitaria che la definisce in buona salute e che le permette di lavorare con il suo corpo. E’ lei a dire al giornalista come incontrare Madame Hope, la donna che organizza passaggi e trasporti verso l’Europa.

Tra il Niger e la Libia il deserto è una sfida ai vecchi camion che caricano decine e decine di persone, quasi duecento, e indossano collane di bidoni di acqua intorno al cassone e alla motrice per garantire la sopravvivenza ai passeggeri. Ogni carico di migranti vale oltre diecimila euro. Ogni carico di migranti vive la morte in diretta di persone che cadono fuori dal cassone e finiscono sotto le ruote e di altre falciate dalla malattia. L’odore persistente è quello delle infezioni intestinali. La diarrea è un invitato permanente.

Il deserto non ha confini. Neanche al limitare degli Stati. Ma i posti di blocco sono disseminati sul territorio. Il controllo da parte dei militari coincide con l’estorsione di denaro con minacce e ricatti. La mancanza di denaro non preserva dalle botte.

Lavoro in trasferta.

Fabrizio Gatti scatta diverse fotografie al lavoro degli schiavi. Migranti al sud, nelle campagne pugliesi. Si infiltra, il giornalista. Lavora con i migranti. Osserva da dentro le dinamiche, la relazione con il gruppo di lavoro, i comandi impartiti dai caporali, le modalità di ingaggio. Gli schiavi arrivano dall’Africa e dal nord. Il fenomeno non riguarda solo i migranti africani, ma anche polacchi, rumeni e altri ancora. La relazione di lavoro è un gioco a somma zero. Non ci sono diritti, nessun dialogo.

L’attraversamento del deserto è trasferimento di schiavi.

Il lavoro in Italia per molti di loro ha la stessa disperazione di fondo dell’attraversamento del deserto.

Bilal rappresenta una lente d’ingrandimento necessaria per osservare da vicino il fenomeno. L’avvicinamento contribuisce a comprendere. Non è detto lo permetta.

I piloti da bombardamento non sono né migliori né peggiori degli altri uomini: è difficile pensare che anche uno solo di loro, quando gli fosse data una latta di benzina e gli fosse imposto di versarla addosso a un bambino e di dargli fuoco, non disubbidirebbe all’ordine. Eppure mettete un uomo normale a bordo di un aereo a poche decine di metri al di sopra di un villaggio e lo vedrete senza un attimo di esitazione scaricare esplosivo e napalm, infliggendo ferite spaventose a uomini, donne e bambini.” Così Anthony Storr, nel suo libro sull’aggressività umana. Correva l’anno 1968.

Nel 2000 un caporale italiano ha inondato di liquido infiammabile un piastrellista rumeno durante una discussione.  Gli ha dato fuoco. L’operaio chiedeva una regolare assunzione. E’ morto dopo trenta giorni di agonia. Si chiamava Ion Cazacu.

La prima edizione del libro di Fabrizio Gatti è del 2007.

Caporali e schiavi sono ancora attori protagonisti del mercato del lavoro, al tramonto del 2024.

Il genere umano è sempre lo stesso. Direbbero gli storici.

Un dovere civile avvicinare agli occhi la lente di ingrandimento di Bilal.

Informazione è potere. Il potere permette il cambiamento.

Fabrizio Gatti, Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi, Rizzoli, Milano

 

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(Link rubrica: La Biblioteca del lavorolavoro migrante ” https://gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=francesca%20dallatana&searchphrase=all&Itemid=374 

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