Questo dato si aggiunge a una lunga serie di operazioni che negli ultimi dieci anni hanno portato alla cessione di 2.948 imprese italiane per un totale di 203 miliardi di euro.
Numeri che, al di là dei comunicati ufficiali e delle narrazioni di convenienza, raccontano una realtà molto diversa da quella di un presunto "boom economico". L’Italia si sta trasformando sempre di più in un “mercato da saccheggiare”, dove il patrimonio industriale e produttivo viene sistematicamente alienato, lasciando dietro di sé un tessuto economico indebolito e una sovranità economica sempre più compromessa.
Le motivazioni che spingono tanti capitali esteri verso le aziende italiane sono, in fondo, un paradosso: il Paese ha ancora eccellenze industriali, marchi rinomati e competenze uniche, ma non ha i mezzi per proteggerli. La debolezza strutturale del sistema Italia tra carenze infrastrutturali, burocrazia opprimente e una fiscalità spesso insostenibile, rende il tessuto imprenditoriale vulnerabile e quindi facile preda per i grandi gruppi speculativi internazionali.
Quello che per gli investitori esteri rappresenta un’opportunità, per l’Italia si traduce in una progressiva perdita di controllo sui suoi asset strategici. Dai settori energetici alla manifattura, dall’agroalimentare al lusso, ogni segmento di mercato ha registrato acquisizioni significative. Dietro ogni cessione, c’è una fetta di ricchezza nazionale che si sposta oltreconfine, contribuendo a un impoverimento economico che spesso diventa anche culturale.
I sostenitori (politici) di questo modello parlano di “internazionalizzazione” e di “integrazione nei mercati globali”. Si dice che le acquisizioni portino investimenti, know-how e nuove opportunità di crescita. Ma a ben vedere, la realtà racconta un’altra storia. Le acquisizioni estere spesso si traducono in delocalizzazioni, in perdita di posti di lavoro e, in molti casi, nella chiusura o ridimensionamento delle aziende stesse.
In questo contesto, è difficile non notare una doppia morale. Mentre altri Paesi proteggono con rigore i loro asset strategici, imponendo vincoli e limiti alle acquisizioni, l’Italia si presenta al tavolo globale senza una visione chiara e senza strumenti adeguati a tutelare i suoi interessi.
La questione va ben oltre i numeri. L’Italia non sta solo perdendo ricchezza, ma anche la sua capacità di decidere autonomamente il proprio futuro economico. Diventare una “colonia economica” significa essere più esposti a pressioni e ricatti da parte di potenze straniere. Chi possiede le aziende, controlla anche i mercati, le tecnologie, le infrastrutture e, in ultima analisi, il destino del Paese stesso.
Il paradosso è che tutto questo avviene mentre il dibattito pubblico si concentra su altro. L’Italia si conferma il “bar dello sport” del mondo: ci lamentiamo, discutiamo animatamente e così ci sentiamo protagonisti, ma nel frattempo qualcuno, nell’ombra, ci porta via tutto.
Se c’è una lezione da trarre da questi dati, è che serve un cambio di rotta. Il primo passo è ammettere che il problema esiste. Il secondo è agire, adottando politiche industriali capaci di proteggere le eccellenze italiane e di rafforzare il sistema economico.
Il rischio, altrimenti, è che il bilancio del prossimo decennio somigli a quello appena concluso: un capolavoro, sì, ma della svendita. E alla fine, saremo noi stessi a guardare i resti di ciò che avevamo, senza nemmeno renderci conto di come li abbiamo persi.
Quell’Italia degli anni ’80, detta “Il giardino d’Europa”, che possedeva ancora le sue ricchezze autentiche come, l’amore, la cordialità, la gentilezza, il buonumore, da quell’Italia siamo arrivati a quella di oggi, che è diventata solo la cattiva copia della “civiltà barbarica” di un inferno economico in stile yankee.