Era accaduto, infatti, che un lavoratore dipendente aveva pubblicato un post contenente affermazioni diffamatorie nei confronti dei propri vertici aziendali, qualificando, quindi, in modo offensivo e dispregiativo l’azienda con conseguente danno all’immagine della stessa.
La società, quindi, procedeva con il licenziamento per giusta causa del lavoratore che impugnava detto provvedimento sanzionatorio, il quale, però, veniva confermato sia dinnanzi al Tribunale che alla Corte d’Appello ed, infine, come si è detto alla Suprema Corte.
La difesa del lavoratore si basava sostanzialmente sulla circostanza che il post era stato rimosso dopo pochissimo tempo dalla pubblicazione e, comunque, durante la permanenza dello stesso era visibile solo ai contatti del lavoratore.
Secondo la Corte di Cassazione, la rimozione del post non è un atto sufficiente a porre riparo o giustificare la condotta assunta dal lavoratore.
Già in passato, la Suprema Corte si era espressa in un caso analogo a quello in esame, stabilendo che la diffusione su Facebook di commenti offensivi nei confronti del datore di lavoro, integrando tale condotta gli estremi della diffamazione, potendo determinare la circolazione del post tra un gruppo indeterminato di persone, costituisce comportamento idoneo a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo e come tale giusta causa di licenziamento.
(*) Autore
avv. Emilio Graziuso - Avvocato Cassazionista e Dottore di Ricerca.
Svolge la professione forense dal 2002 occupandosi prevalentemente di diritto civile, bancario – finanziario e diritto dei consumatori.
Docente ai corsi di formazione della prestigiosa Casa Editrice Giuridica Giuffrè Francis Lefebvre ed autore per la stessa di numerose pubblicazioni e monografie.
Relatore a convegni e seminari giuridici e curatore della collana "Il diritto dei consumatori" edita dalla Key Editore.
Presidente Nazionale Associazione "Dalla Parte del Consumatore".
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