Mercoledì, 20 Ottobre 2021 09:17

Una falsa intervista per spiegarti l’arte del profiling dei serial killer In evidenza

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Edizione super economica. Volto di Charles Manson che riempie la copertina. Sottotitolo accattivante, “La storia vera del primo cacciatore di serial killer americano”. Prefazione di Donato Carrisi, una garanzia. Memorie scritte dal vero verissimo agente FBI, John Douglas.

 

Maledette edizioni economiche TEA a prezzo speciale.

Sapevo bene a cosa stessi andando incontro. 
Avevo già guardato tempo fa la serie esclusiva Netflix e non ne conservavo un ricordo entusiasmante.

La mia valutazione sull’APP infatti indica “pollice in giù”.

Ma in libreria non ho resistito: da #bimbadelcrimine quale sono, acquisto temeraria e fiduciosa il libro di questa noiosissima serie tv.
E persevero diabolicamente nel mio crimine, visto che decido di leggerlo in parallelo alla ri-visione della prima stagione (no, non ce l’ho fatta ad andare oltre il decimo episodio). 

Non potevo certo farmelo scappare. Edizione super economica. Volto di Charles Manson che riempie la copertina. Sottotitolo accattivante, “La storia vera del primo cacciatore di serial killer americano”. Prefazione di Donato Carrisi, una garanzia. Memorie scritte dal vero verissimo agente FBI, John Douglas.

Mi metto all’opera, e alterno lettura a visione. 

Ho faticato non poco a portarli a termine, sino a che Mark è giunto in mio soccorso. Instagram, Facebook e Whatsapp, il mio principale piccione viaggiatore digitale, sono down.
Fortunatamente. 

La pioggia battente fuori, e il teporino tra gatti e caldo plaid dentro, fanno sì che io non abbia alcuna ragione per alzarmi dal divano. 
Sono senza distrazioni. 

Per cui ci do dentro: è arrivata l’ora di finire questo libro. Diamoci un taglio. 

Eh sì, ho faticato un poco.

Mindhunter non è un romanzo, non è un saggio, non è un’autobiografia, non è una raccolta di racconti.

Non saprei definirne il genere: è la descrizione, decisamente accademica direi, della carriera e dei casi trattati in prima persona di John Douglas, agente speciale del Federal Bureau of Investigation e uno dei fortunati padri del criminal profiling.





So cosa stai pensando: ehi Giulia, sono storie reali e brutali, non ti sarai aspettata mica una scrittura frizzantina o dei colpi di scena, vero?

Stiamo pur sempre parlando di omicidi, no?!

 

Sì sì sì, hai ragione. Alzo le mani. 
Ma permettimi comunque un piccolo appunto, personale e soggettivo: l’interessantissimo contenuto viene a volte penalizzato dalla forma e dalla struttura. 
Alcune spiegazioni risultano quasi asettiche e incapaci di suscitare un qualsiasi coinvolgimento emotivo nel lettore. 
Fatti completamente diversi tra loro si alternano tra una riga e l’altra, stroncando il flusso narrativo. 
Disturba una costante collezione di nomi e cognomi di agenti “di passaggio”, inutili al fine della narrazione e doverosi per la sola onorevole memoria.
Non c’è ordine cronologico né una suddivisione per crimine o per profilo psicologico. 
Mi è stato altrettanto difficile ricostruire gli step di carriera dello stesso John, essenziale per capire COME sia arrivato ad elaborare il famoso metodo di profilazione criminale.

Siamo qui per questo, no?! 

Non è il libro che mi tiene incollata per ore e ore consecutive. Non è il libro che rileggerei due volte.

Nonostante questo, merita? Assolutamente sì.

Quello del crimine è un mondo che affascina, appassiona, avvicina e divide il popolo. 
Su, via, non mentiamo: tutti, almeno una volta, siamo rimasti incollati davanti al giornale o a un programma tv di cronaca nera (o semplicemente abbiamo preferito un film thriller ad una commedia). 
Nutriamo una sincera curiosità nel cercare di capire la mente di un omicida, di un abile truffatore, di un ingegnoso rapinatore. 
Cosa li spinge a compiere questi gesti, spesso efferati, brutali e sadici? Come scelgono le loro vittime? Come organizzano i loro intenti?

Questo agente dell’FBI ha passato buona parte della sua vita a rispondere a questi quesiti, intervistando criminali di qualsiasi genere. 

Ti racconto il libro e ti racconto John Douglas attraverso le sue stesse parole, prese direttamente dalla sua penna. 

Come se lo avessimo intervistato noi.

Ecco quindi alcuni estratti del libro per rispondere alle “nostre” cinque domande. 

Pronti, partenza, via!

 

Come ti sei avvicinato al profiling?

Arrestare i delinquenti andava benissimo, ma presto scoprii che a interessarmi erano soprattutto i processi mentali che stavano alla base dei reati. Ogni volta che arrestavo qualcuno, non mancavo mai di fargli domande precise, come ad esempio per quale motivo avesse scelto proprio quella banca o quella vittima. Volevo scoprire quali decisioni avevano avuto parte nella progettazione ed esecuzione del colpo.
[...] Ad interessarmi di più era sempre l’elemento psicologico: qual è la molla che fa di un uomo un assassino, e che cosa determina le modalità dell’omicidio?

 

Com’è nata la profilazione per i killer?

All’epoca guidata da Jack Pfaff, la UAC era dominata da due grandi personalità: Howard Teten e Patrick Mullany. Alto più di un metro e novanta, con occhi penetranti dietro gli occhiali dalla montatura di metallo, Teten era un contemplativo, l’intellettuale per eccellenza. Entrò nel Bureau nel 1962, dopo aver prestato servizio presso il dipartimento di polizia di San Leandro, in California. Nel 1969 divenne responsabile di un corso di fondamentale importanza, denominato “criminologia applicata”, in seguito (sospetto dopo la morte di Hoover) ribattezzato “psicologia criminale applicata”. Nel 1972, Teten andò a New York per consultare il dottor James Brussel, lo psichiatra che aveva risolto il caso di Mad Bomber, e che acconsentì ad insegnargli la tecnica del profiling da lui messa a punto. 
Il passo avanti compiuto da Teten sta nella valutazione della scena del crimine come fonte di informazioni sul comportamento e le motivazioni del soggetto sconosciuto. Per certi versi è su questa premessa che si basò tutto il lavoro successivo nel campo dell’analisi comportamentale e dell’analisi investigativa del crimine.





Chi è stato il primo criminale che avete intervistato per le vostre ricerche?

Il primo criminale di cui ci interessammo fu Ed Kemper, che all’epoca scontava la sua condanna a più di un ergastolo presso una struttura psichiatrica di Vacaville, nello stato della California, più o meno a metà strada tra San Francisco e Sacramento. Avevamo trattato il suo caso all’Accademia, ma senza avere con lui un contatto diretto, e fu proprio questo a stimolare il nostro interesse.  
Edmund Emil Kemper III era nato il 18 dicembre 1948 a Burbank, California. Aveva due sorelle più giovani, e i genitori si erano separati dopo anni di continui litigi. [...] Non c’era da dubitare che il matrimonio dei due fosse stato un terribile errore. Sua madre lo aveva odiato proprio perché assomigliava all’ex marito. A dieci anni Ed era già gigantesco, e a quel punto Clarnell (la madre) aveva cominciato a temere che molestasse la sorella Susan. Per impedirlo, prese l’abitudine di chiuderlo ogni sera a chiave nello scantinato. Ed era terrorizzato da quelle lunghe notti solitarie, e fu allora che iniziò a nutrire risentimento verso le due donne. […] Venire rinchiuso come un prigioniero contribuì a farlo sentire colpevole e pericoloso senza che in realtà avesse fatto nulla di male, e a suscitare in lui propositi omicidi.
[…] La principale fantasia di Kemper era quella di liberarsi della madre dominatrice e violenta, e tutto il suo operato di assassino può essere letto in questo contesto. […] Di rado il soggetto sfoga la propria rabbia sulla persona che ne è la causa. 

 

Che differenza c’è tra serial killer e pluriomicida?
Il serial killer uccide ripetutamente seguendo una cadenza ciclica o sperimentando momenti di pseudonormalità fra un omicidio e l’altro. Il pluriomicida è colui che uccide più volte in un unico contesto.

 

Ci racconti un aneddoto?
Quando il regista e il cast de “Il silenzio degli innocenti” vennero a Quantico, invitai nel mio ufficio Scott Glenn, l’attore che impersonava Jack Crawford. Glenn è un uomo di idee progressiste, convinto della fondamentale bontà degli esseri umani e delle necessità della loro riabilitazione. Gli mostrai alcune foto relative a delitti su cui stavamo indagando in quei giorni. Gli feci ascoltare la sofferenza di due ragazzine di Los Angeles torturate a morte nel retro di un furgone da due assassini in cerca di emozione.
Glenn pianse mentre ascoltava: “non immaginavo che ci fossero persone capaci di tanto”, commentò. E dopo di allora non poté più dichiararsi contrario alla pena di morte.
“L’esperienza di Quantico mi ha fatto cambiare idea una volta per tutte”, ebbe a dire. 





Lo so, lo so: ho lasciato in disparte la serie tv. 

Diversamente dal libro, questa segue un flusso di eventi sensato. 

Ma… 

La costante atmosfera fredda e i colori cupi scelti per rappresentare questi anni Settanta si respirano per tutta la pellicola, e sono difficili da digerire senza un leggero borbottio di stomaco per dieci episodi. 
I personaggi sembrano impassibili, fastidiosamente imperturbabili, nonostante si trovino sul punto di essere i fautori di una delle più grandi svolte e creazioni moderne sulle scene del crimine mondiali. 

Lo posso dire? Lo dico: a volte mi son chiesta se stessi guardando un film tedesco. 

Mindhunter, come serie tv, ha riscosso un buon successo e gode dell’approvazione del pubblico. 

Chissà cosa ne pensa realmente Mr Douglas…

 

(a cura di Giulia Orrù del team parliamodilibri.it)

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