Parlare del 9 maggio 1978 è ricordare una ferita aperta dello Stato italiano.
di Paola Tanzi - Parma 09 maggio 2014 ----
Una ferita che neppure ora pare essere intenzionata a rimarginarsi. Perché trentasei anni dopo è ancora misteriosa la motivazione della morte dello statista.
Il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana, quel giorno, in via Caetani a Roma, non lontano da via delle Botteghe Oscure, dove aveva sede la segreteria e la direzione nazionale del Partito Comunista Italiano, ha segnato l’inizio di un’epoca, in cui i cittadini si sono resi conto della debolezza dello Stato in mano ad una politica- quella della prima Repubblica- non più garante.
È il risultato di un’epoca il delitto di via Caetani? La storiografia, che ancora scarseggia a causa dell’inaccessibilità dei documenti e dell’ancora presenza dei testimoni, non aiuta nella lettura di un episodio che ha recentemente aperto spiragli- ancora tutti da accertare- di nuove verità.
Ma è chiaro che il clima di terrorismo e di (tentata?) solidarietà nazionale che contraddistinsero la fine degli anni Settanta furono lo sfondo sociale del delitto le cui cause, però, sono tutte da chiarire.
I gruppi che si rifacevano all’estrema sinistra erano attivi dai primi anni Settanta con attentati incendiari isolati. Fu tra il ’72 ed il ’73 che l’azione si spinse verso i sequestri dei dirigenti industriali e dei magistrati, come il rapimento Sossi. Del ’76 l’uccisione del procuratore generale di Genova, Francesco Coco, e dei suoi due uomini della scorta: fu il primo assassinio programmato. Un salto di qualità, dovuto forse anche alla partecipazione alle azioni terroristiche dei due nuovi gruppi, i Nuclei armati proletari e Prima Linea.
Dall’altra parte si acuì la crisi economica: nel 1975 il pil si ridusse del 3,6 per cento che lasciò elevata l’inflazione del 1976, dovuta in parte alla dilatazione dei consumi e alla crescita della spesa pubblica. Un effetto amplificato dall’introduzione della scala mobile e dalla disoccupazione giovanile, che sfociò in un malessere generale nel 1977 con lo scontro dei gruppi di Autonomia operaia. La contestazione generale vedeva come bersaglio principale la sinistra tradizionale, Pci e sindacati in testa: Lama, segretario della Cgil, fu addirittura aggredito nel febbraio del 1977 all’Università di Roma. Molti di questi giovani delusi dall’ondata del ’77, che nulla produsse, ripiegarono al ritiro privato; altri optarono alla linea terroristica che si impennò nell’azione. Solo in quell’anno 287 furono gli attentati, rivendicati da ben 77 sigle differenti; nel ’79 divennero 805, con ben 217 rivendicazioni siglate differentemente. Fu la fine dell’azione politica della Repubblica, in preda al terrore.
L’azione che ne sancì il “potere” fu la presa di posizione contro lo Stato ed i suoi rappresentati: contro le sue decisioni, i suoi accordi. Contro la sacralità democratica delle sue istituzioni. La decisione di agire il giorno della presentazione del nuovo governo Andreotti, monocolore e democristiano, appoggiato da una maggioranza allargata anche al Pci, fu un chiaro segnale di rifiuto degli accordi e della trattativa. Un “no” a quella politica di solidarietà nazionale che tentava di arginare una destabilizzazione ormai non più rinviabile nell’azione di risposta.
Il 16 marzo del 1978 Aldo Moro fu rapito mentre si stava recando alla Camera per discutere la fiducia al governo presieduto da Andreotti. Dopo la notizia della drammatica vicenda di via Fani in tutto il paese sorsero iniziative spontanee ed il governo varò immediatamente la fiducia. «Una risposta veloce in difesa della democrazia violata» scrissero i giornali.
Ma perché Moro?
Alla luce degli eventi storici e politici di quei giorni Moro rappresentava il punto di incontro di una situazione ancora complessa. Moro rappresentava una garanzia di certezza, un ponte verso il futuro con l’accordo con il Pci. Una politica di compromessi, che non tutti accettavano.
Ma il capo militare delle Br, Mario Moretti, negò sin dal principio- indimenticabile l’intervista rilasciata a Giorgio Bocca per «L’Espresso», la scelta dettata dalla contingenza politica della vittima: era solo un rappresentante del potere democristiano. Tesi confutata negli anni ’90 dalla brigatista Anna Laura Braghetti, che parlò di Moro come «rappresentante di quel compromesso storico che ingabbiava l’opposizione subordinandola alla Dc».
Le interviste rilasciate in seguito dai coinvolti nella vicenda aprirono molteplici strade di questione ancora tutte da risolvere. In un recentissimo intervento Ferdinando Imposimato proclamò dal palco di Reggio Emilia: «L'uccisione di Moro è avvenuta per mano delle Brigate Rosse, ma anche e soprattutto per il volere di Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e del sottosegretario Nicola Lettieri». Sempre secondo l’ex giudice istruttore della vicenda, riprendendo la tesi del fratello di Moro, Carlo Alfredo, che parlò di «delitto annunciato», gli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa erano a conoscenza di un’azione di alto livello». Nicolò Bozzo, stando a quanto riporta Moro nel libro sulla vicenda del familiare uscito nel 1998, disse: «Lanciammo l’allarme. Eravamo ai primi di gennaio del 1978». «Se non mi fossero stati nascosti alcuni documenti - ha aggiunto Imposimato nel 2013 - li avrei incriminati per concorso in associazione per il fatto. I servizi segreti avevano scoperto dove le Br lo nascondevano, così come i carabinieri. Il generale Dalla Chiesa avrebbe voluto intervenire con i suoi uomini e la Polizia per liberarlo in tutta sicurezza, ma due giorni prima dell'uccisione ricevettero l'ordine di abbandonare il luogo attiguo a quello della prigionia».
Ed è lo stesso Imposimato che nel giugno 2013 ha depositato un esposto alla Procura di Roma con queste dichiarazioni. Un atto che ha indotto la magistratura all’apertura di un fascicolo ove mancano, però, reato ed indagati. È solo una ricerca di nuovi elementi atti alla riapertura del caso e delle indagini. Le dichiarazioni dell’ex giudice, inoltre, vanno ad aggiungersi a quelle di due artificieri che spostano l’ora del ritrovamento della Renault 4 alle 11 e che indicherebbe anche la presenza dell’allora ministro degli Interni Francesco Cossiga in via Caetani. Ed a quel tempo il futuro presidente della Repubblica era a capo del comitato tecnico-operativo per il coordinamento delle forze dell’ordine e dei servizi segreti. Un coordinamento che, stando a quanto scritto dalla Commissione di inchiesta parlamentare, «non ha coordinato niente». Una grave accusa mai smentita dai fatti. I giorni della detenzione del capo della Democrazia Cristiana videro anche il sorgere del Comitato informativo, la cui maggior parte degli aggregati faceva capo alla P2, cioè la loggia massonica. Il Viminale tentò di muoversi con un «gruppo di crisi»: il progetto era quello di attivare canali verso Cosa Nostra per capire il luogo dove era tenuto ostaggio il leader.
Francesco Biscione, consulente della commissione stragi della XII legislatura parlò di «mobilitazione di parata poco utile agli sviluppi delle indagini»: anche perché nel frattempo si era resa concreta la spaccatura tra le forze armate e quelle politiche di coordinamento.
I cinquantacinque giorni del 1978 furono un susseguirsi di errori politici e militari: di perquisizioni non finite, di messaggi non captati. Si pensava forse ad uno scambio di prigionieri? Era quello che tentava di suggerire lo statista? Rientrò poi nei piani delle Br?
Certo è che la politica, quella parlamentare si divise anche sull’azione: chi per la linea dura, il non cedere di fronte le richieste di terroristi, e i fautori del «compromesso», della trattativa. Una sorta di seguito della politica attivata dallo stesso Moro cui infatti risposero solo i fedelissimi, i cattolici, la sinistra rivoluzionaria e il Psi.
Moro comprese, seppur in prigione, la grave situazione di crisi ed ammonì il suo partito: «Io ci sarò ancora come punto irriducibile di contestazione e di alternativa, per impedire che della Dc si faccia quello che se ne fa oggi». E fu proprio Moro ad identificare in Andreotti «il responsabile dell’irrimediabilità della mia situazione. [Andreotti agisce] con il proposito di sacrificare senza scrupolo quegli che è stato il patrono ed il realizzatore degli attuali accordi di governo».
Lo stesso Moro, intuendo di non riuscire a sbloccare la situazione politica, tentò il coinvolgimento del mondo cattolico. Scrisse una lettera a Paolo VI, recapitata il 20 aprile 1978, perché intercedesse per uno scambio di prigionieri. Il pontefice rispose con un messaggio pubblico alle Br parlando di un’azione «senza condizioni». Moro interpretò questo, stando al memoriale, come appoggio della linea dura. Secondo Corrado Guerzoni, esponente Dc vicino a Moro, fu Andreotti ad aggiungere questo passaggio; tesi poi smentita dall’ex segretario del Papa Pasquale Macchi. Al grido di aiuto di Montini però fece eco il silenzio assoluto di Leone: il presidente della Repubblica non proferì parola in soccorso al suo onorevole parlamentare.
In quei giorni di terrore la stampa analizzava i comunicati delle Br, le missive di Moro. E uno spiraglio di movimento apparve con Fanfani, intenzionato a portare alla direzione della Dc la possibilità di una mossa unilaterale dello Stato. La riunione era in programma il 9 maggio. Mentre erano in corso i lavori di discussione giunse la notizia del ritrovamento: un duro colpo per lo Stato italiano, una sconfitta per la democrazia, un’occasione persa per la politica. E fu l’inizio di quello che ancora oggi è «L’affaire Moro»: un gioco di silenzi, di sottintesi, di segreti svelati a metà. Il compromesso di Moro avrebbe cambiato la storia della politica italiana? Senza dubbio. La formazione intellettuale e politica dello statista non permetteva inganni.
Un gioco di Stato di cui forse, ora con le nuove aperture di inchiesta avviate dal parlamento, si potrà ricominciare a scavare alla ricerca della verità.