Domenica, 05 Giugno 2022 05:43

“Dentro la Costituzione” - I quesiti referendari del 12 giugno 2022 In evidenza

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Di Daniele Trabucco (*) Belluno, 5 giugno 2022 - Domenica 12 giugno 2022, dalle ore 07:00 alle ore 23:00, i cittadini elettori saranno chiamati a decidere se voler abrogare o meno le disposizioni normative oggetto di cinque quesiti, ammessi dalla Corte costituzionale, concernenti alcuni l’ordinamento giudiziario, altri profili specifici in materia di processo penale e di contrasto alla corruzione.

Per la validità della consultazione referendaria, alla quale possono partecipare tutti coloro che hanno compiuto il diciottesimo anno d’età, la Costituzione vigente, all’articolo 75, pone il raggiungimento di due quorum:

1) quello partecipativo, cioè deve recarsi al voto la maggioranza degli aventi diritto;

2) quello deliberativo, ossia i voti validi a favore del SÌ all’abrogazione devono superare i voti validi espressi per il NO.

Come è stato autorevolmente sostenuto in dottrina (Crisafulli, Pizzorusso, Sandulli), il fatto che dall’esito del referendum dipenda la permanenza in vigore di una legge o di un atto normativo ad essa equiparato induce a collocare i voti popolari abrogativi sul medesimo piano nel quale si collocano le disposizioni normative che ne vengono abrogate. Vediamo, ora, il contenuto dei quesiti e le diverse ragioni a sostegno rispettivamente dell’abrogazione e del mantenimento della normativa in vigore.

 

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Elezione dei membri «togati» del Consiglio superiore della Magistratura.

Il CSM è un organo di rilievo costituzionale che si occupa della carriera e dei magistrati e dell’esercizio del potere disciplinare nei loro confronti, attraverso una apposita sezione, quando ne sussistono i presupposti. È disciplinato nell’articolo 104 del Testo costituzionale ed è composto da tre membri di diritto (il Presidente della Repubblica, il Primo Presidente ed il Procuratore generale della Corte di Cassazione), da due terzi eletti dai magistrati ordinari (c.d. membri «togati») e da un terzo ad opera del Parlamento in seduta comune (c.d. membri «laici») tra i professori ordinari di Università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio. Il quesito referendario riguarda le disposizioni che normano l’elezione dei membri «togati», in particolare le modalità di presentazione delle candidature di cui alla legge ordinaria dello Stato 24 marzo 1958, n. 195 e successive modificazioni ed integrazioni. Se un magistrato intende proporre la propria candidatura, deve raccogliere almeno 25 firme (massimo 50) di altri colleghi. Qualora si realizzasse l’effetto abrogativo, il candidato si potrebbe presentare in autonomia e liberamente senza l’appoggio delle «correnti». L’intento, secondo i promotori, è ridurne il peso nella individuazione dei candidati, evitando in questo modo la lottizzazione delle nomine. Chi si oppone, invece, ritiene che l’eliminazione dell’obbligo di presentazione delle firme non sia risolutivo rispetto alle correnti che continuerebbero ad operare a favore di questo o quel candidato, essendo endemiche all’interno della magistratura (non solo di quella ordinaria).

Valutazione della professionalità dei magistrati.

Il quesito chiede, attraverso l’abrogazione di alcune disposizioni di cui al decreto legislativo delegato 27 gennaio 2006, n. 25, che la componente «laica» del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari, ossia gli avvocati ed i professori universitari in materie giuridiche, non sia esclusa dalle valutazioni sulla professionalità dei magistrati i quali, ogni quattro anni, vengono valutati dal Consiglio superiore della Magistratura in base a pareri (giuridicamente non vincolanti) predisposti dai Consigli di cui sopra. La normativa vigente prevede che la valutazione sull’operato dei magistrati (diversamente da quanto avviene per questioni tecniche e organizzative) spetti unicamente ai membri «togati», cioè ai soli magistrati. Se vincesse il SÌ, i membri «laici» avrebbero diritto di partecipare anche alla stesura dei pareri sulla professionalità dei magistrati da sottoporre poi al CSM. Viceversa, chi è contrario ritiene che un ruolo (specialmente) degli avvocati non sia opportuno, pena il rischio di valutazioni ostili e preconcette tali da minare la terzietà e l’indipendenza del giudice.

Separazione delle funzioni giudicanti e requirenti dei magistrati.

Il quesito referendario riguarda l’abrogazione di quelle disposizioni normative che consentono ai magistrati di passare dalla funzione inquirente a quella giudicante e viceversa. Oggi è possibile, ai sensi della legge ordinaria dello Stato n. 111/2007 (c.d. legge Mastella), il passaggio per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata. Esso è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni espresso dal Consiglio superiore della Magistratura previo parere non vincolante del Consiglio giudiziario. La vittoria del SÌ comporterebbe la separazione netta delle due funzioni: a inizio carriera il magistrato dovrebbe scegliere o per la funzione giudicante o per quella requirente e questo, secondo i promotori, garantirebbe maggiore equità ed indipendenza. Chi, invece, non vuole si verifichi l’effetto abrogativo da un lato pensa che il passaggio regolamentato da una funzione ad un’altra consenta un’esperienza positiva da preservare, dall’altro che lo strumento referendario non costituisca lo strumento più adatto, dal momento che, allontanando i magistrati con funzioni requirenti dalla giurisdizione in senso stretto, ne scaturirebbe una «cultura dell’indagine e dell’accusa autonoma» tale da richiedere una revisione del Titolo IV della Costituzione repubblicana vigente che si riferisce a tutti i magistrati a prescindere dalla funzione esercitata.

Abrogazione totale del «decreto Severino».

Il quesito chiede l’abrogazione totale del decreto legislativo delegato 31 dicembre 2012, n. 235 (decreto «Severino») adottato dal Governo della Repubblica in attuazione della legge di delegazione n. 190/2012. Esso prevede il divieto di ricoprire cariche elettive e governative per chi è colpito da sentenze definitive di condanna alla pena della reclusione superiore a due anni riferite a reati gravi non colposi (ferma restando l’eventuale interdizione perpetua dai pubblici uffici disposta dalla legge penale). Si tratta di tre categorie di delitti, tentati o consumati, di particolare allarme sociale (ad esempio: reati con finalità di terrorismo o di stampo mafioso, sfruttamento sessuale di minori, delitti contro la Pubblica amministrazione quali peculato, concussione, corruzione, delitti non colposi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore a quattro anni). Se l’incandidabilità sopraggiunge dopo l’assunzione della carica, si verifica la decadenza dalla stessa, mentre quando un soggetto ricopre la carica ed è condannato con una sentenza non definitiva, scatta, in attesa della stessa, la sospensione. Qualora si tratti di un parlamentare, non si verifica la cessazione ex lege dalla carica, ma spetterà alla Camera di appartenenza pronunciare la mancata convalida o la decadenza in base ai principi dell’art. 66 della Costituzione per verificare che non sussista il c.d. fumus persecutionis verso una personalità politica. La vittoria del SÌ consentirà anche ai condannati in via definitiva di candidarsi o di continuare il proprio mandato e farà venir meno l’automatismo della sospensione in caso di condanna non definitiva. Torneranno, dunque, ad essere i giudici a decidere, caso per caso, l’applicazione o meno della pena accessoria dei pubblici uffici. Chi si oppone all’abrogazione sostiene, dal canto suo, che se l’obiettivo era quello di evitare principalmente «vuoti di potere» con la sospensione automatica dei sindaci e degli amministratori locali in ipotesi di condanna non definitiva, allora il quesito referendario doveva riguardare singole disposizioni normative e non l’intera fonte-atto.

Limiti agli abusi dell’istituto giuridico della custodia cautelare.

La custodia cautelare è una misura coercitiva di natura personale con la quale un indagato viene privato della propria libertà, nonostante non sia stato ancora riconosciuto colpevole di alcun reato, laddove si verifichino quelle esigenze cautelari tipizzate dall’articolo 274 del codice di procedura penale del 1988 e successive modificazioni:

a) quando sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l'acquisizione o la genuinità della prova;

b) quando l'imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto e attuale pericolo che egli si dia alla fuga, sempre che il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione;

c) quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede.

Il quesito referendario chiede l’abrogazione parziale dell’art. 274 in relazione al comma 1, lett. c). In altri termini, per i promotori resterebbe in vigore la custodia cautelare per chi commette reati più gravi e si abolirebbe la possibilità di procedere alla privazione della libertà in ragione di una possibile «reiterazione del medesimo reato».

Questa è la motivazione che viene utilizzata più di frequente per disporre la misura coercitiva personale, molto spesso senza che questo rischio esista veramente. Viceversa, per i sostenitori del NO si fa notare che, sebbene in Italia si faccia un uso frequente di questo istituto giuridico, l’articolo 274 del codice di procedura penale stabilisce già dei limiti in caso di reiterazione del reato, ossia che la custodia può essere disposta unicamente in presenza di delitti che contemplano una pena reclusione non inferiore a quattro anni o di almeno cinque anni per la custodia cautelare in carcere.

 

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(*) Professore Daniele Trabucco – Costituzionalista

Associato di Diritto Costituzionale italiano e comparato presso la Libera Accademia degli Studi di Bellinzona/UNIB (Svizzera)-Centro Studi Superiori INDEF (Istituto di Neuroscienze Dinamiche «Erich Fromm»). Professore universitario a contratto di Diritto Internazionale e Diritto Pubblico Comparato e Diritti Umani presso la Scuola Superiore per Mediatori Linguistici/Istituto ad Ordinamento universitario «Prospero Moisé Loria» di Milano. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico. Vice-Referente di UNIDOLOMITI (settore Università ed Alta Formazione del Centro Consorzi di Belluno)