Domenica, 20 Ottobre 2024 06:13

Lavoro migrante: Mamadou Diop In evidenza

Scritto da Francesca Dallatana
Mamadou Diop Mamadou Diop

Wolof in trasferta. Return colonization.

Di Francesca Dallatana Reggio Emilia, 20 Ottobre 2024 -

Wolof, in silenzioso sottofondo. A un italiano senza accento. Di vocabolario ricco e sintatticamente perfetto.

Il wolof è la lingua più diffusa, in Senegal. La lingua ufficiale è il francese. L’hanno portata i colonizzatori. Il wolof è dominante.

Classe 1999, generazione Z. Lui si definisce un millennial. Ma è nato dopo, nei tardissimi anni Novanta del vecchio millennio, ultimi anni del Novecento.

Mamadou Diop di senegalese ha solo il nome e i genitori. E la storia della famiglia d’origine, una valigia che passa di mano in mano dovunque si vada e qualunque cosa accada.

Vive nella provincia reggiana e lavora a Reggio Emilia capoluogo. E’ nato in Italia, figlio di persone originarie di Dakar. E’ l’ultimo anello di una dinamica di lavoro migrante, un testimone sui generis.

Studente in architettura presso il Politecnico di Milano, sede di Mantova. Anzi: studente lavoratore. Dal 2023  assunto presso il Cas (Centro di accoglienza straordinaria, Ndr) del Ceis (Centro di solidadarietà, Ndr) di Reggio Emilia come operatore sociale dell’integrazione.

La lingua dell’Europa.

La lingua dell’Europa è la traduzione. Lo ha detto Umberto Eco. Il confine tra le lingue conosciute per Mamadou Diop è una linea molto sottile. E’ come se parlasse traducendo. In tempo reale.

La competenza linguistica è uno strumento di lavoro: inglese, francese, wolof, italiano madrelingua. Un caleidoscopio di lingue, parlate e conosciute tutte alla perfezione. Vettori intrecciati per la costruzione di una relazione fatta soprattutto di ascolto e di osservazione e di azioni calibrate.  Il composito patrimonio linguistico è funzionale anche alla vita privata.

Al telefono con i miei familiari parliamo wolof, francese e italiano. Con il francese ho un rapporto strano, di amore e odio. Quando parliamo, i miei familiari ed io, intrecciamo le tre lingue.  Passiamo da una lingua all’altra in modo spontaneo. Ci permettono di dare senso e colore a quello che diciamo.” L’intervista parte dal suo italiano impeccabile. Imparato in una scuola italiana, praticato nelle scuole reggiane e con gli amici.

Pensa in inglese, soprattutto quando i temi sono esistenziali e profondi. “Penso in inglese soprattutto quando mi domando che cosa voglio fare della mia vita, che cosa farò nel futuro. Fuori casa ho sempre parlato solo l’italiano. In casa, invece, parlavamo quasi esclusivamente wolof. A partire dalla scuola elementare, ho studiato la lingua inglese. E l’ho praticata. L’ho studiata in autonomia. Ho seguito e seguo video su YouTube in inglese.” In Italia prevale l’italiano, ma le altre lingue contagiano il tracciato principale della lingua nazionale.

Durante l’ultimo viaggio in Senegal, parlavo wolof con accento italiano.” Il ritmo di un Paese europeo si intrufola nella trama linguistica senegalese.  Dissimula. E a volte si cela negli accenti di là dal confine.

Mamadou Diop si spiega meglio: “Parlo wolof come un gambiano. Così mi dicono i parenti senegalesi.” Come parlano il wolof, i gambiani? “Lo parlano più lentamente. Lo parlano come i sardi parlano l’italiano. Con una vocale alla fine della parola.”

In un volto divertito, sgrana un grande sorriso Mamadou Diop e assicura: “I gambiani parlano wolof con accento sardo.”

Soffio leggero d’ironia italiana applicata alla versione senegalese di sé.

La scuola come laboratorio di cittadinanza.

Una famiglia allargata: è la comunità di origine: i genitori e alcuni parenti stretti.

Il confine tra il dentro e fuori la comunità di riferimento e di appartenenza è la lingua. Dentro: wolof. Fuori: italiano. Fuori: la scuola, i gruppi di amici, l’italiano come veicolo della relazione sociale.

Mamadou Diop ha studiato al liceo artistico Chierici di Reggio Emilia. “Mi piaceva disegnare. Ho una predisposizione per l’arte, per il disegno.”: una motivazione razionale per l’iscrizione al liceo artistico. Nei primi decenni del duemila come era la composizione delle classi al liceo Chierici? Quanti allievi erano figli di lavoratori migranti? “Davvero pochi. I figli dei lavoratori migranti frequentano soprattutto le scuole tecniche. Con l’obiettivo di andare a lavorare subito, una volta terminata la scuola. E’ una scelta funzionale. Nel 2014 al mio liceo gli studenti erano italiani, per la stragrande maggioranza. I figli di lavoratori migranti provenienti dall’ Africa sub-sahariano erano forse cinque in tutto l’istituto. Il numero degli allievi provenienti dal nord Africa era maggiore. Questa era la situazione che ho vissuto, negli anni 2015-2016. Poi le cose sono cambiate.”

In continuo mutamento le identità delle persone che raggiungono le coste italiane, sempre più giovani, bambini e ragazzi, minori stranieri non accompagnati, famiglie.

La scuola rappresenta dal punto di vista di un figlio di lavoratori migranti, osservatore partecipante del fenomeno, uno strumento concreto per la costruzione della cittadinanza e per valorizzare il senso di appartenenza al Paese? La risposta è un colpo in canna: “Sì. Senza dubbio. La scuola è un motore sociale di integrazione molto importante. Fondamentale per la socializzazione, per la lingua, per la relazione tra le diverse famiglie degli studenti. Conoscere la storia del Paese, della letteratura, la storia dell’arte: è fondamentale per sentirsi cittadini. La conoscenza e la formazione sono centrali per costruire la cittadinanza.”

Dieci anni di attesa per ottenere la cittadinanza italiana. Una durata accettabile? “Un periodo troppo lungo. Se si verificano le condizioni per ottenerla, dal mio punto di vista, la cittadinanza deve essere riconosciuta in un tempo minore di dieci anni. Le condizioni sono: l’integrazione sociale, la competenza linguistica, il lavoro. E la disponibilità a costruire il Paese del futuro, a portare il proprio contributo. In questo caso al Paese d’accoglienza.

Paese di origine e Paese di accoglienza. Andate e ritorni.

Facoltà di architettura, facoltà di interfaccia tra l’operatività della costruzione e la consapevolezza sociale e culturale dell’organizzazione dello spazio. Perché questa scelta? “Una conseguenza diretta della scuola media superiore, del liceo artistico. E del mio particolare interesse culturale.

Costruire, progettare nuovi spazi sociali. Dove? In Senegal oppure in Italia?

Pensavo di andare in Senegal a progettare, a portare idee. L’ho pensato nei primi anni dell’Università. A un certo punto ho capito che potrei farlo anche qui, in Italia. Vivo qui. Niente male vivere qui.”

E come vede se stesso fra dieci anni Mamadou Diop? Risponde lo studente in architettura: “Progettare, costruire qualche cosa. Un’idea che diventa un progetto. Un progetto che si trasforma in opera architettonica.”

Il Senegal rimane come riferimento profondo. Intrecciato profondamente all’appartenenza all’Italia.

Nella quotidianità di Mamadou Diop ci sono molte persone migranti, provenienti da diversi Paesi del mondo. Persone in fuga dalle guerre e da Paesi non sicuri, tutte motivate a ricominciare in un Paese nuovo e a migliorare le loro condizioni di vita.

Da dove vengono le persone migranti accolte dal centro di accoglienza straordinaria del Ceis di Reggio Emilia? “Sono persone ivoriane, bengalesi, del Burkina Faso, egiziane, tunisine, provenienti dal Pakistan e altri Paesi. Abbiamo accolto molte persone provenienti dall’Ucraina, dopo i fatti del febbraio 2022.

L’operatore Mamadou Diop è un modello per gli accolti? Silenzio e un sorriso trattenuto. “No, non sono un modello. Alcuni di loro mi chiedono da quanto tempo sono in Italia. Da sempre, rispondo. Sono italiano, sono nato qui.”

Dal punto di vista degli accolti quanto è importante conoscere la lingua italiana? “Hanno altre priorità. Capita che diverse persone accolte riescano a trovare lavoro. E non sempre si tratta di un lavoro regolare. Il lavoro diventa più importante della conoscenza linguistica. Parlare e comprendere la lingua è importante se si lavora con persone italiane. Ci sono circuiti che permettono di lavorare senza conoscere la lingua italiana, circuiti e relazioni fra connazionali.” Un fenomeno difficilmente superabile e comune a diverse esperienze di accoglienza. Del quale gli operatori molto spesso intuiscono senza avere la possibilità di verifica e dimostrazione.

L’emergenza ucraina del 2022 ha comportato un numero molto alto di ingressi nei centri di accoglienza straordinaria. Come sta andando questo capitolo dell’accoglienza? “Si tratta di una migrazione forzata. Come molte altre. Molte persone arrivate nel 2022 non vogliono rimanere, ma vogliono ritornare nel loro Paese. Si registra una resistenza all’integrazione anche nei migranti più giovani di età: bambini e ragazzi. Ai nuclei delle famiglie ucraine il Ceis ha destinato case dedicate. Gli ucraini sono accolti in alloggi solo per loro. Mentre le altre strutture accolgono gruppi compositi di persone, di diversa provenienza. Da una parte l’Ucraina e dall’altra parte tutto il resto del mondo.

Da una parte l’Ucraina, dall’altra parte tutto il resto del mondo. L’operatore sociale Mamadou Diop scatta una fotografia precisa dell’accoglienza degli ultimi due anni. Una fotografia che vale anche per centri di accoglienza straordinaria di altre città emiliane e, fatte le dovute differenze, anche per molte accoglienze di secondo livello, cioè per il Sai (Sistema di accoglienza e integrazione; già Siproimi; già Sprar; Ndr).

Senegal e Italia. Una presentazione reciproca.

Un film italiano da suggerire a un senegalese che non conosca l’Italia? “Benvenuti al nord.” E’ il sequel del film Benvenuti al Sud. Uno spaccato sociale della provincia italiana.

Un consiglio per i lettori della Gazzetta dell’Emilia che vogliano avvicinarsi alla conoscenza del Senegal?

Una serie Tv. Sako e Mangan. I protagonisti sono detective che lavorano in Senegal. E’ ambientato a Dakar. E una canzone: 4/4/44 di Youssou N’dour. La canzone parla dell’Indipendenza e di come vada celebrata. Il Senegal ha ottenuto l’Indipendenza il quattro aprile del 1960. Il cantante ha intitolato la canzone 4/4/44 per dare ritmo alla canzone. Perché foneticamente funziona bene in wolof.”

E' una colonizzazione di ritorno. Il give back dell’operatore Mamadou Diop fa rima con cultura.

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(Link rubrica:  La Biblioteca del lavorolavoro migrante ” https://gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=francesca%20dallatana&searchphrase=all&Itemid=374 

   https://www.gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=lavoro%20migrante&ordering=newest&searchphrase=exact&limit=30)

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