Di Francesco Graziano Bologna, 13 maggio 2024 - Fabrizio Escheri, autore del bel romanzo “ Quattro di coppia”, edito dalla Ianieri edizioni per la collana Le Dalie nere, ha scritto un noir che terrà incollato lo spettatore dalla prima all’ultima pagina.
Attraverso l’adozione di un regime narratoriale a punto di vista fisso (per chi non avesse nozioni di Teoria della letteratura, molto semplicemente il punto di vista di un personaggio ci guida attraverso il mondo diegetico e attraverso i suoi occhi ricostruiamo la vicenda scritta; questo ha dato vita a interessanti speculazioni, che qui accenno brevemente, quanto è credibile il protagonista del bel romanzo “ Fuoco pallido” di Nabokov? Ma non è questa la sede per parlarne).
Dicevamo del punto di vista, quello di Luca, uno dei quattro protagonisti della storia messa in piedi come se fosse un’opera di ingegneria narrativa, il quale ci guida attraverso il ritratto di un’Italia che arriva fino all’anno scorso. Il pretesto che dà il via alla storia è l’omicidio di uno dei quattro protagonisti, amici inseparabili per una vita, che arriva ad ossessionare questo splendido personaggio di giudice che- come segno di speranza- metterà alla luce una bambina che avrà anche lei un forte senso di giustizia. Senza rivelare troppo, in quanto l’autore “ci porta in macchina” per una Palermo bella e maledetta facendoci credere di regalarci certezze salvo poi rivelare tutto e – in tal modo- manifestare la superiorità della letteratura che, superando la cronaca, aveva troppo frettolosamente etichettato l’assassino di Sergio, un altro amico del gruppo, diventato urologo di fama, come un omicidio di droga.
Dunque vengono nominati personaggi politici che hanno segnato la storia della nostra seconda Repubblica, prevalentemente nella seconda parte del romanzo, la prima che parte dagli anni ’80 è naturalmente dominata da un discorso sulla mafia che – nonostante si tratti di un romanzo – non appare per nulla generico ma ben documentato.
Luca, futuro professore di Diritto, frequenta la sua personale “ palestra” politica dal Dominus che lo educa agli ideali della buona giustizia, arrivando persino ad emozionarsi quando rompe gli argini severi e freddi del tipico Maestro autorevole ma non autoritario. Questo secondo padre di uno dei protagonisti, scoppia in lacrime allorquando si racconta di sentenze sfavorevoli ai mafiosi.
Qui dobbiamo, senza cercare di annoiare troppo il lettore, richiedergli un certo sforzo intellettuale, nonostante non si sia più imbevuti di storicismo e abituati a leggere per un tempo lungo. Come dicono nella serie televisiva “ Mercoledì’’ “ chi dimentica la storia è condannato a ripeterla”. Ci soffermeremo, sperando in modo esaustivo, su cosa sia stato il Maxi processo ( evento fondamentale per le scelte politiche e professionali di Luca), soprattutto una delle prime giornate, con scene che fanno indignare e che sono state ben documentate. Proveremo ed essere il più possibile ellittici. Andate a vedere la durata effettiva del “ Processone” e capirete. Nel romanzo ne troverete citate alcune, come la sentenza del giudice di primo grado, la cattura di Totò Riina e altro ancora.
MAXI PROCESSO
I guai seri per Cosa Nostra cominciano a causa di un pentito: Tommaso Buscetta.
Tommaso Buscetta venne arrestato il 22 ottobre del 1983 in Brasile a San Paolo al termine di un’operazione orchestrata dalla polizia brasiliana avviata tre anni prima quando si rese irreperibile mentre si trovava detenuto in regime di semilibertà nel carcere di Torino.
Il giorno della cattura, quando l’ispettore Gustavo De Magalhanes Pinto gli mise le manette, nelle sue tasche vennero ritrovate due carte d’identità false: una intestata a Thomas Felici mentre l’altra a Jose Roberto Escobar.
Il latitante venne catturato insieme alla moglie brasiliana Maria Cristina De Almeida Guimares e a suo padre, e agli italiani Fabrizio Noberto Sansone, Paolo Staccioli e Giuseppe Bizzarro.
Le manette scattarono anche per il cittadino statunitense Armando Nicholas Almendares.
Secondo l’ispettore De Magalhanes Pinto il gruppo aveva allestito il più vasto traffico di droga mai visto in Brasile.
L’11 settembre di un anno prima a Buscetta fecero scomparire i figli Antonio e Benedetto di 32 e 34 anni. La macchina dei due giovani venne trovata in Piazza Ottavio Ziino a Palermo.
Il 26 dicembre nella pizzeria gestita dalla figlia di Buscetta in via dell’Artigliere alcuni killer uccisero Giuseppe Genova, genero di Buscetta e i suoi due cugini, Orazio e Antonio D’amico, due ragazzi di 20 e 25 anni.
Il 29 dicembre 1982 nella vetreria di via delle Alpi uccisero Vincenzo Buscetta, fratello di ‘Masino’ e figlio di don Vincenzo Bennj.
In America del sud Buscetta, sotto falso nome, riprese le attività illegali che aveva interrotto quando dieci anni prima era stato arrestato ed estradato.
Secondo fonti confidenziali della polizia, Buscetta fino al novembre dell’anno prima era a Palermo, a Cinisi, ospite del suo grande amico don Tano Badalamenti.
Dopo la morte di Inzerillo e di Bontate, il cognato dei Salvo, Ignazio Lo Presti, telefonò a Buscetta in Brasile raccontandogli le ultime vicende che erano accadute e lo invitò a tornare per tentare di aggiustare le cose.
Buscetta capì che non c’era molto da fare e si affrettò a ritornare in Brasile. Ed ecco che tra settembre e dicembre partì la vendetta contro figli e congiunti di ‘don Masino’ (così era chiamato Buscetta).
Egli aveva varcato l’oceano già nel 1963 per sfuggire al dopo La Barbera.
Il 29 luglio del 1970 era di nuovo in Italia: venne trovato in un posto di blocco insieme a Gelardo Alberti, al boss catanese Giuseppe Calderone, a Tano Badalamenti e a Totò Greco.
Tutti quanti avevano documenti falsi (Buscetta era Barbieri mentre Salvatore Greco aveva un passaporto intestato a Martinez Caruso).
Riuscirono a passare senza conseguenze spiacevoli i controlli e si recarono in Svizzera dove allora si trovava Liggio.
Nel 1970 avvenne il super vertice mafioso a cui seguì la scomparsa del giornalista De Mauro e l’uccisione del procuratore Scaglione.
Cinque anni dopo, la Cassazione confermerà la condanna a 14 anni inflittagli dalla Corte di Assise di Catanzaro.
Inoltre per traffico di droga la Corte di Assise di Salerno il 14 luglio del 1977 lo condannò a 10 anni.
Buscetta capì che a Palermo non avrebbe mai ottenuto la semilibertà e così si fece trasferire a Torino dove la ottenne nel febbraio del 1980 e cominciò a lavorare in una vetreria.
Dopo pochi giorni di lavoro scomparve. Al momento dell’arresto Buscetta aveva 55 anni.
Buscetta decise di collaborare e raccontò tutto quello che sapeva su Cosa Nostra al giudice Giovanni Falcone. Tutto ciò portò all’arresto di 474 mafiosi. Il 10 febbraio del 1986 cominciò il maxiprocesso.
Alle 09.45 del 10 febbraio 1986 cominciò ufficialmente a Palermo il ‘Grande processo’.
Subito un pentito si rese protagonista; mentre il presidente Giordano ( nominato nel romanzo) procedeva alla costituzione delle parti (appello degli imputati, verifica dei loro difensori e nomina di avvocati d’ufficio, per chi ne avesse avuto bisogno), tale Salvatore Di Marco di 28 anni chiese la parola. Il Di Marco venne arrestato dopo una rapina ad un treno avvenuta cinque anni prima.
Durante il carcere questi si pentì e accusò i Vernengo, una famiglia già nota alle cronache palermitane. Di Marco era uno dei 25 pentiti sui quali poggiava l’accusa. Ad un certo punto Di Marco si avvicinò al microfono e disse: «Signor presidente, mi scusi l’intromissione, sono più di due anni che vivo in carcere. Sono sempre stato in compagnia e non ho subito pressioni né minacce. Chiedo di essere riammesso a vita comune e, se la Signoria Vostra me lo concede, il trasferimento al carcere di Palermo».
Di Marco con questa dichiarazione voleva dimostrare agli altri sessanta detenuti presenti quel giorno che non era un infame e che avrebbe ritrattato.
Il maxiprocesso cominciò così con questa dichiarazione che rappresentava «un pressoché innocuo petardo contro il processo» a causa della «statura, tutto sommato medio-bassa, del personaggio»[1].
In una delle gabbie quel giorno c’era pure Luciano Liggio. Tra i membri della Corte il pubblico ministero Giuseppe Ayala, il giudice a latere titolare Pietro Grasso, e come detto il presidente Alfonso Giordano.
La giornata proseguì con l’appello degli imputati e dei difensori e terminò a pomeriggio inoltrato. Nell’aula-bunker dell’Ucciardone vennero nominati gli imputati celebri, assenti, presenti e latitanti e gli avvocati impegnati nelle loro difese. Quel giorno nell’aula-bunker entrarono anche i parenti delle vittime. Tra gli altri Nando Dalla Chiesa con le sorelle Rita e Simona, i figli del procuratore Costa, quelli del commissario Boris Giuliano. Si vide il sindaco Orlando che si costituì parte civile per la città di Palermo. Non mancarono manifestazioni di ostilità contro i parenti delle vittime.
Arrivati al quarto giorno si scatenò la bagarre nella costituzione delle parti civili. Una decina di avvocati chiesero la parola. Il primo ad alzarsi fu Francesco Marasà.
Secondo Marasà, Rosetta Giaccone, la vedova del medico assassinato perché si rifiutò di eseguire una perizia di favore, non poteva costituirsi parte civile: «Non ha questo diritto…perché non ha dimostrato la sua convivenza con il marito negli ultimi suoi sei mesi di vita».
Aggiungendo poi che «per Nando e Simona Dalla Chiesa mancano i motivi tecnici». Ciò significa che i due non avevano, a parere dell’avvocato, ben documentato nella forma, i motivi che li avevano portati a costituirsi parte civile. Ma le dichiarazioni sorprendenti quel giorno non si fermarono qui: l’avvocato Buscemi disse a proposito della Lega per l’ambiente e il Coordinamento antimafia che queste organizzazioni «sono delle tossine in questa realtà processuale». E infine l’avvocato Nino Fileccia bollò come “insulto all’intelligenza e alla cultura giuridica” la costituzione come parte civile del sindaco di Palermo e della Regione Siciliana[2].
Il fatto che in quel periodo cominciasse il maxiprocesso lo si può definire comunque un grande successo della giustizia italiana. Certamente le parole degli avvocati difensori dei mafiosi indignano ma quel tipo di mentalità purtroppo è difficile da cambiare anche oggi, nel 2014, trentadue anni dopo le stragi del ’92.
L’ordinanza di rinvio a giudizio a carico dei 400 e passa mafiosi depositata l’8 novembre del 1985 riserva grande spazio alla descrizione dell’apparato strutturale e alle attività di Cosa Nostra. Le testimonianze rese da Tommaso Buscetta sono state, come detto, fondamentali per ricostruire l’identità dell’organizzazione criminale «Cosa Nostra». Si badi bene al nome «Cosa Nostra» e non mafia. La parola “mafia” è un termine che non viene mai usato dagli aderenti all’organizzazione criminale in quanto la sua origine è esclusivamente letteraria. Come sottolinea Salvatore Lupo “di mafiosi si parla per la prima volta nel 1862-63, in una commedia popolare di grande successo intitolata appunto “I mafiusi di La Vicaria”, e ambientata nel 1854 tra i camorristi detenuti del carcere palermitano”[3].
Sulla base delle testimonianze del Buscetta sappiamo che la vita di «Cosa Nostra» è disciplinata da regole rigide che possiamo riassumere così:
1. Troviamo la “famiglia” che controlla una zona della città o un intero centro abitato da cui prende il nome (famiglia di Porta Nuova, famiglia di Villabate ecc.).
2. La “famiglia” è governata da un capo di nomina elettiva o “rappresentante”, il quale è assistito da un «vice-capo» e da uno o più «consiglieri»; vi sono poi gli «uomini d’onore» o «soldati» coordinati, per ogni gruppo di dieci, da un “capodecina”. Se per una serie di eventi la normale elezione del “capo” da parte dei membri della “famiglia” non fosse resa possibile, la “commissione” provvederà alla nomina di “reggenti” che gestiranno la “famiglia” fino allo svolgimento delle normali elezioni. L’esempio riportato da Tommaso Buscetta è quello di Francesco Di Noto che venne ucciso il 9 giugno del 1981. Di Noto era un quarantasettenne commerciante di pellami schedato come mafioso negli uffici della Questura. Il delitto avvenne ad un chilometro da Villabate tra le campagne adiacenti a via Messina Marine, proprio davanti alla «Sicilpelle», la conceria di proprietà dello stesso Di Noto.
Ebbene l’assassinato era da molto tempo il «reggente» della «famiglia» di Corso dei Mille. Dopo la sua morte venne nominato «rappresentante» della “famiglia” Filippo Marchese.
Allo stesso modo dopo l’uccisione di Stefano Bontate, «rappresentante» della “famiglia” di S. Maria di Gesù, la «commissione» nominò reggenti Pietro Lo Jacono e Giovambattista Pullarà.
Dopo l’uccisione di Salvatore Inzerillo, che comandava la “famiglia” di Passo di Rigano, venne nominato reggente Salvatore Buscemi. Dopo la scomparsa di Giuseppe Inzerillo, capo della “famiglia” dell’Uditore, venne nominato reggente Francesco Bonura e dopo la “espulsione” da «Cosa Nostra» di Gaetano Badalamenti a capo della famiglia di Cinisi, venne nominato “reggente” il cugino, Antonino Badalamenti.
3. La “commissione” o “cupola” coordina l’attività delle “famiglie”. Questa sorta di organismo collegiale deputato al controllo delle attività svolte dalle “famiglie” è composto dai «capimandamento» cioè i rappresentanti di tre o più “famiglie” territorialmente contigue.
Solitamente il «capo-mandamento» è anche il capo di una delle “famiglie”, ma per evitare che una stessa persona cumuli troppo potere, a volte è accaduto che la carica di «capo mandamento» venisse separata da quella di «rappresentante» di una “famiglia”.
4. La commissione è presieduta da uno dei capi-mandamento; questa provvederà a far rispettare le regole di «Cosa Nostra» all’interno di ciascuna “famiglia” e soprattutto avrà il preciso dovere di comporre le vertenze fra queste ultime.
5. Da tempo in ogni provincia della Sicilia sono insediate strutture mafiose.
6. La mafia di Palermo ha esercitato su quella delle altre province una supremazia assoluta. Recentemente è sorto un organismo segreto denominato «Interprovinciale» con il compito di regolare gli affari riguardanti gli interessi di più province.
Gli «uomini d’onore» per arruolarsi devono possedere i seguenti requisiti: coraggio e spietatezza. Ma soprattutto “assoluta mancanza di vincoli di parentela con «sbirri»”[4].
Chi si trova in possesso di questi requisiti, dopo averne sondato la disponibilità ad entrare nell’associazione criminale, “viene condotto in un luogo defilato dove, alla presenza di almeno tre uomini della “famiglia” di cui andrà a far parte, si svolge la cerimonia del giuramento di fedeltà a «Cosa Nostra»”[5].
Il neofita prenderà in mano un’immagine sacra che verrà imbrattata del sangue che sgorgherà da un dito che gli viene punto; successivamente le darà fuoco e la terrà fra le mani fino al totale spegnimento della stessa, ripetendo la formula che andrà a concludersi con la frase: «Le mie carni debbono bruciare come questa santina se non manterrò fede al giuramento»[6].
Dopo avere acquisito lo status di «uomo d’onore» il mafioso rimarrà tale per tutta la vita e questo status verrà a cadere solo con la sua morte. Una volta che si entra a far parte di «Cosa Nostra» se ne conoscono i segreti più reconditi e si entra in contatto con gli altri associati (la regola prevede che di solito sia un terzo membro a presentare due «uomini d’onore» tra di loro con la frase «Chistu è a stissa cosa». Questo per dare la sicurezza che si parli con un “uomo d’onore” e non con un estraneo). È necessario rispettare la «consegna del silenzio»: se si svela la propria appartenenza alla mafia o si rivelano i segreti di «Cosa Nostra», si viene puniti con la morte.
In questo senso i Corleonesi rappresentano un’eccezione in quanto solamente loro e la “famiglia” di Resuttana hanno impedito ai capi delle altre “famiglie” di conoscere ufficialmente i nomi dei loro membri. Andando evidentemente contro la prassi che prevedeva prima di tutto l’assenso dei capi-famiglia all’ingresso di un nuovo adepto in «Cosa nostra» dopo averne accertato eventuali motivi ostativi al suo ingresso nell’associazione criminale.
All’interno dell’associazione la circolazione delle notizie è ridotta al minimo indispensabile. L’ «uomo d’onore» non deve fare troppe domande ma se gli «uomini d’onore» parlano tra di loro di fatti che riguardano «Cosa Nostra» vige l’obbligo assoluto di dire la verità.
Affinché ciò accada quando si ha a che fare con esponenti di diverse famiglie è meglio farsi assistere da un terzo consociato che possa confermare il contenuto della conversazione.
I bugiardi vengono chiamati «tragediaturi» e possono essere o espulsi, ovvero «posati» o uccisi. Prendendo atto dell’esistenza di questo «codice» che regola la circolazione delle notizie all’interno di «Cosa Nostra» possiamo comprendere il fatto che agli «uomini d’onore» in fondo bastino poche parole oppure un gesto per intendersi fra di loro.
Viene da pensare, leggendo il racconto che Bolzoni e D’Avanzo fanno della vita di Riina da quando era piccolo nella Corleone del dopoguerra, che l’indole dell’«uomo d’onore», soprattutto in alcuni personaggi, sia presente fin dall’adolescenza.
Camminavano sempre in tre. Totò, Calò e Binnu. Totò Riina, Calogero Bagarella e Bernardo Provenzano. Erano inseparabili. Erano tutti e tre «la stessa cosa». Insieme nei campi, al bar Alaimo, insieme sul muretto di Piazza Garibaldi. Quando si incontravano si baciavano sulle guance. Passavano giornate intere senza parlare. Non avevano bisogno di parole per comprendersi. Era sufficiente uno sguardo, o un silenzio, o un cenno del capo.
Erano nati nell’arco di cinque anni. Totò era del ’30, Binnu del ’33, Calogero del ’35. Sembravano così diversi dal loro capo. Sembravano di un altro mondo. Non avevano la spavalderia e l’insolenza di Lucianeddu. Nessuno dei tre apriva mai bocca se non aveva qualcosa da dire. E soprattutto se quel qualcosa non fosse strettamente necessario[7].
Se due uomini d’onore vengono fermati dagli «sbirri» mentre sono a bordo di una macchina dove viene trovata, mettiamo caso, un’arma, basterà semplicemente un cenno d’intesa fra i due affinché uno di essi si prenda la paternità dell’arma e le ovvie conseguenze, salvando quindi l’altro. Oppure se si viene a conoscenza da un mafioso che in una località x Tizio faccia parte di «Cosa Nostra» questo è sufficiente per avere la certezza assoluta che qualora ci si trovasse nei guai sarà possibile rivolgersi a Tizio che presterà l’aiuto necessario.
Un’altra regola fondamentale è quella che impedisce ad un mafioso di passare da una “famiglia” all’altra. Se non fosse una regola proveniente dalla mafia potremmo quasi invitare i nostri politici a prendere esempio dai mafiosi dato che all’occorrenza i passaggi da un partito all’altro nella nostra lunga storia parlamentare sono stati numerosi e oramai non si contano più.
Riferisce però Buscetta che “questa regola non è stata più rigidamente osservata dopo le vicende della «guerra di mafia» che hanno segnato l’inizio dell’imbastardimento di «Cosa Nostra»: infatti Salvatore Montalto, che era il vice di Salvatore Inzerillo (ucciso nella «guerra di mafia») nella “famiglia” di Passo di Rigano, è stato nominato, proprio come premio per il suo tradimento, rappresentante della “famiglia” di Villabate[8].
Nel momento in cui un mafioso viene messo in galera la “famiglia” di appartenenza sostiene finanziariamente lui e i suoi familiari e l’aiuto finanziario, se ne tenga conto, è sostanzioso.
Se un capo famiglia viene messo in galera, per tutta la durata della detenzione sarà sostituito dal suo vice che prenderà tutte le decisioni al posto suo. Il capo comunque, attraverso i collegamenti esterni, potrà sempre far sapere il suo punto di vista che non è vincolante.
Una volta uscito dal carcere il capo però può pretendere che il suo vice gli renda conto delle decisioni prese.
Altra regola fondamentale è l’assoluto divieto per l’«uomo d’onore» di fare ricorso alla Giustizia statuale. L’unica eccezione riguarda i furti di veicoli i quali possono essere denunciati alla Polizia Giudiziaria. Tutto ciò per evitare che il mafioso, titolare del veicolo rubato, possa essere coinvolto in eventuali fatti illeciti compiuti con l’uso dello stesso. Si intende che deve essere denunciato il fatto oggettivo del furto e non l’autore. Durante il periodo della carcerazione è buona norma che l’«uomo d’onore», raggiunto da elementi di reità, non si finga pazzo per sfuggire ad una condanna perché questo atteggiamento viene interpretato come un’incapacità da parte del mafioso di prendersi le proprie responsabilità. Il fatto che ci siano parecchi esempi di mafiosi che hanno infranto questa regola come Giorgio Aglieri, Gerlando Alberti, Tommaso Spadaro, Antonino Marchese, Gaspare Mutolo, Vincenzo Sinagra “è un ulteriore sintomo della degenerazione degli antichi princìpi di «Cosa Nostra»”[9].
In carcere, inoltre, i mafiosi dovevano accantonare ogni contrasto, cercando di evitare atteggiamenti di rivolta contro l’Autorità carceraria. Ma anche questa norma, come quella della pazzia, non si rivelò assoluta visto che Pietro Marchese, uomo d’onore della “famiglia” di Ciaculli, venne ucciso il 25 febbraio del 1982 all’interno del Carcere dell’Ucciardone, proprio su mandato della “commissione”, da altri detenuti.
Quando un uomo d’onore è «posato», cioè espulso, il vincolo di appartenenza con «Cosa Nostra» non è rotto avendo l’espulsione un effetto meramente sospensivo che può sistemarsi con il reintegro dell’«uomo d’onore».
Anche Buscetta venne espulso (la sua espulsione gli venne comunicata da Gaetano Badalamenti) dal suo capo famiglia Giuseppe Calò, il quale poi gli disse di non tenere conto della sanzione proponendogli anzi di passare alle sue dirette dipendenze.
Gli altri mafiosi non devono rivolgere la parola o intrattenere rapporti con l’uomo d’onore «posato» ma lo stesso Buscetta notò che in carcere gli altri «uomini d’onore» intrattenessero con lui rapporti normalissimi come se non fosse successo nulla e che non avesse ricevuto alcun aiuto finanziario come è d’uso per gli espulsi. Buscetta inizialmente si mostrò scettico sulla possibilità che Gaetano Badalamenti, espulso nel ’78 dalla «commissione», nonostante fosse capo di «Cosa Nostra» per motivi gravissimi su cui Buscetta non volle dire nulla, benché espulso, fosse coinvolto nel traffico di sostanze stupefacenti con altri uomini d’onore.
Venuto però a conoscenza delle prove oggettive acquisite dall’Ufficio si ricredette commentando che «veramente il danaro ha corrotto tutto e tutti»[10].
Vincenzo Marsala è un’altra “fonte” che i giudici utilizzarono per completare il quadro della struttura mafiosa e anche per verificare se le dichiarazioni del Buscetta fossero vere.
Vincenzo Marsala era figlio di Mariano, «rappresentante» della “famiglia” di Vicari; dopo l’uccisione del padre decise di rivelare tutto quello che sapeva su Cosa Nostra.
Le dichiarazioni rilasciate dal Marsala erano assolutamente corrispondenti con quelle di Buscetta.
Buscetta raccontò tutto quello che sapeva su Cosa Nostra: come fosse organizzata, chi fossero i suoi capi, i suoi gregari, quali fossero i suoi rituali. Il maxi processo cominciato il 10 febbraio del 1986 si concluse il 16 dicembre del 1987 con una raffica di condanne. Quel giorno in un silenzio irreale imputati, avvocati, giornalisti e pubblico guardarono la porta da cui uscì “la Corte”. Uno dopo l’altro sfilarono i giudici. Il presidente Alfonso Giordano, il giudice a latere Pietro Grasso e le quattro donne e i due uomini componenti laici che dall’11 novembre, per 35 giorni, rimasero chiusi nelle stanze segrete del bunker. Furono diciannove gli ergastoli e vennero dati anni di carcere a migliaia per l’Onorata Società. Gli ergastoli furono per Michele Greco; Salvatore Riina e Bernardo Provenzano; Giovan Battista Pullarà; Pino Greco, “Scarpuzzedda”; Francesco Madonia; Rosario Riccobono; Salvatore Montalto. Questi sono gli otto tra i 19 accusati di far parte della “Commissione” che subirono la massima pena. I boss a cui venne inflitto l’ergastolo per omicidio furono: Giuseppe Lucchese; Vincenzo e Antonino Sinagra; Filippo, Antonio, Giuseppe Marchese; Benedetto Santapaola; Pietro Senapa; Salvatore Rotolo; Pietro Vernengo e Francesco Spadaro. Ci fu un’assoluzione eccellente. Luciano Liggio. In carcere dal 1974 secondo la corte non poteva aver tenuto i contatti con gli affari delle cosche. La pubblica accusa per il vecchio capo di Corleone chiese una condanna a 15 anni per associazione mafiosa e traffico di droga ma il risultato fu un’assoluzione per insufficienza di prove. Pippo Calò venne condannato a 23 anni di reclusione. Bernardo Brusca, capo della “famiglia” di San Giuseppe Jato fu condannato a 26 anni di carcere. Antonino Geraci venne condannato a 12 anni. In tutto le assoluzioni furono 114 e 338 le condanne. A fronte di 5000 anni di carcere chiesti dall’accusa la corte ne comminò 2.700. A Buscetta vennero dati tre anni e sei mesi, a Totuccio Contorno sei anni mentre a Vincenzo Sinagra venne comminata una pena di ventuno anni di carcere: rivelò i segreti della cosca di Corso dei Mille ma partecipò anche a terribili omicidi. La cosca di Filippo Marchese fu la più colpita: cinque dei suoi esponenti furono condannati alla massima pena. Salvatore Rotolo venne condannato all’ergastolo per l’assassinio del professor Paolo Giaccone il quale si rifiutò di cambiare la perizia che inchiodava il figlio di Filippo Marchese per la strage del 1981 a Bagheria con l’eliminazione del Clan Di Peri. Per l’omicidio del generale Dalla Chiesa che perse la vita nell’attentato di via Isidoro Carini insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo il 3 settembre del 1982 la corte accertò la responsabilità della “cupola” mafiosa e in particolare di Nitto Santapaola colpevole anche per la strage alla Circonvallazione nel giugno del 1982. In quell’occasione il boss fece assassinare il nemico Alfio Ferlito insieme all’autista e ai tre carabinieri che scortavano il Ferlito da un carcere all’altro. Sono lontani gli anni in cui i giudici per paura procedevano all’assoluzione dei mafiosi dopo aver ricevuto lettere minatorie tese a far assolvere i boss Corleonesi. Come disse Norberto Bobbio: “I magistrati di Palermo hanno dato una grande prova di intransigenza, di fermezza, di coraggio e di civiltà. Sia lode ai giudici, quindi. Ai magistrati e ai giudici popolari. Hanno lavorato, si sono sacrificati, affrontando un processo lungo e difficile, per dimostrare che esiste un’Italia civile”[11].
Queste parole pronunciate da un’autorità come Bobbio rappresentarono un grande sostegno morale ed un elogio d’un tremendo compito che impegnò per quasi due anni la Corte del maxiprocesso. Mariano Agate condannato a 22 anni come da richiesta della pubblica accusa; Gerlando Alberti senior venne condannato a sei anni a fronte di una richiesta di 11 anni; Gerlando Alberti jr. venne condannato a 15 anni a fronte di una richiesta di tredici mesi; Pietro Alfano, che condusse gli agenti federali statunitensi sulle tracce di Gaetano Badalamenti in Spagna, a Madrid precisamente, dove il patriarca di Cinisi aveva trovato rifugio, venne condannato a cinque anni a fronte di una richiesta di 18 anni; Bernardo Brusca definito come “la più importante base siciliana di Luciano Liggio” da Giuseppe Di Cristina venne condannato a 23 anni dopo che era stato richiesto l’ergastolo; Calogero Bagarella fratello del più noto Leoluca a fronte di una richiesta di 6 anni venne assolto; Giuseppe Bono indicato da Buscetta come il rappresentante della “famiglia” di Bolognetta e suo fratello Alfredo vennero condannati a 23 e 18 anni di carcere; Giovanni Bontade, fratello di Stefano, venne condannato a otto anni; Buscetta, il quale affermò di aver abbandonato Cosa Nostra allorquando si accorse che i princìpi che ispiravano l’organizzazione saltarono, venne condannato, come detto, a 3 anni e 6 mesi a fronte di una richiesta di quattro anni; Giuseppe Calò, capo della “famiglia” di Porta Nuova venne condannato a 23 anni dopo che per lui era stato chiesto l’ergastolo; Salvatore Catalano tra le altre cose a capo dell’organizzazione Pizza Connection, imputazione per la quale fu condannato a New York, all’inizio del 2016 è tornato a vivere a Ciminna in Sicilia dopo aver trascorso venticinque anni in un penitenziario del Kansas con l’accusa di essere un membro autorevole della famiglia Bonanno di New York; Onofrio Catalano, il cugino di Salvatore, che si occupava, all’interno dell’organizzazione, dei movimenti di denaro dagli U.S.A. in Svizzera venne condannato a 17 anni di carcere; Salvatore Chiaracane indicato da Contorno per essere “il perno della “famiglia” di Corso dei Mille” venne condannato a 4 anni e 6 mesi; Antonio Ciulla accusato di aver trafficato in droga nella zona di Trezzano sul Naviglio venne assolto; Salvatore Contorno, come detto, venne condannato a 6 anni; Giuseppe, Francesco, Antonino Ferrera, erano una cosca di primo piano della mafia catanese, i loro nomi sono legati alla storia della “Alexandros T” la nave che trasportò in Italia mezza tonnellata di eroina pura, vennero condannati rispettivamente a 22,17 e 17 anni di carcere; Gaetano Fidanzati imputato nel processo insieme ai fratelli Antonino, Carlo, Stefano e Giuseppe, venne condannato a 22 anni; Antonino Geraci indicato da Buscetta come uomo fidato di Riina venne condannato a 12 anni; Gaetano, Giacomo, Salvatore e Vincenzo Grado vennero condannati rispettivamente a 17, 9, 9 , 9 anni di carcere. Clan ben inserito nel traffico di droga milanese i Grado, legati alle “famiglie” perdenti nella guerra tra cosche, ripararono in Spagna; Michele Greco collocato da Buscetta al vertice di Cosa Nostra, capo della commissione, condannato per la strage Chinnici venne condannato all’ergastolo; Giovannello Greco che passò dalla cosca dei Corleonesi alla “famiglia” di Bontade ed Inzerillo venne condannato a 15 anni. Legato a Badalamenti trafficò in droga; Pino Greco, che i pentiti indicarono insieme a Mario Prestifilippo per essere il braccio armato dei corleonesi, scomparve verso la fine del 1985; Liggio come detto venne assolto; Pietro Lo Iacono accusato da Buscetta di essere il reggente insieme a Giovan Battista Pullarà della “famiglia” di Santa Maria di Gesù, oltre ad essere considerato il grande traditore di Stefano Bontade, il cui delitto gli venne attribuito, fu condannato a 18 anni; Francesco Madonia, padre del killer del capitano Basile, Giuseppe, capo della “famiglia”di Resuttana, imputato di omicidi, traffico di droga e di associazione mafiosa, venne condannato all’ergastolo; Filippo Marchese, capo della cosca di Corso dei Mille venne condannato all’ergastolo; Salvatore Montalto il quale abbandonando Totuccio Inzerillo contribuì al suo isolamento e successiva eliminazione venne condannato all’ergastolo. In premio dai Corleonesi per quell’abbandono, ricevette l’incarico di comandare la cosca di Villabate; Ignazio Motisi, rappresentante della cosca di Pagliarelli venne assolto; Gaspare Mutolo legato al clan catanese Santapaola venne condannato a 16 anni; Giovanni Pilo, componente della famiglia” di San Lorenzo e sospettato di riciclare con l’attività di costruttore edile il denaro proveniente dal traffico di eroina, venne condannato a 9 anni; Bernardo Provenzano venne condannato all’ergastolo e come scrisse “L’ora” del 17 dicembre: “Di lui non si hanno tracce da anni, non si sa neppure che faccia abbia. Ma c’è chi giura che vive e tiene le fila dell’organizzazione a Palermo”[12].
Vincenzo Puccio, boss di San Lorenzo, imputato di associazione mafiosa e traffico di droga fu condannato a 10 anni; Rosario Riccobono, prima vicino a Bontade e successivamente dalla parte dei Corleonesi, capo della “famiglia” di Partanna venne condannato all’ergastolo; Salvatore Riina accusato da Buscetta di avere ucciso il Procuratore della Repubblica Pietro Scaglione e di avere ispirato i delitti Mattarella, Basile e Reina venne condannato all’ergastolo; Antonio Rotolo, esponente della “famiglia” di Pagliarelli venne condannato a 18 anni; Antonino Salomone al vertice della “famiglia” di San Giuseppe Jato, definito dal PM “il volto umano della mafia” (pur di non eseguire l’ordine di uccidere Buscetta abbandonò il Brasile e si fece arrestare in Italia), indicato da Buscetta come una delle sue fonti principali, venne condannato a 18 anni; Ignazio Salvo che insieme al cugino Nino ospitò Buscetta durante la latitanza venne condannato a 7 anni; Benedetto Santapaola detto “Nitto” venne condannato all’ergastolo; Salvatore Scaglione secondo Buscetta capo della “famiglia” della Noce venne condannato a 23 anni; Pietro Senapa indicato da Sinagra come uno dei killer più attivi della cosca di Corso dei Mille venne condannato all’ergastolo.
Questi sono solo alcuni dei nomi coinvolti nel maxi processo di Palermo che coinvolse quasi 500 imputati. Vero è che ci furono parecchie assoluzioni ma è anche vero che tutti quelli riconosciuti come responsabili del massacro che fece piazza pulita degli apparati investigativi in Sicilia furono condannati all’ergastolo. Per la strage Dalla Chiesa furono condannati Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Filippo Marchese e Benedetto Santapaola.
Per l’omicidio del vice questore Giuliano i responsabili vennero indicati in Filippo Marchese, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia e Pino Greco.
Per l’omicidio Basile avvenuto il 4 maggio del 1980 vennero colpiti gli stessi personaggi coinvolti nell’omicidio di Boris Giuliano. Il capitano Basile riprese il filo investigativo che Giuliano lasciò in sospeso.
Per l’omicidio Giaccone furono condannati all’ergastolo Filippo Marchese e Salvatore Rotolo.
Per l’omicidio Zucchetto, l’agente della squadra mobile che dava la caccia a Pino Greco, ucciso una sera del 14 novembre 1982, venne condannato proprio Greco.
Ecco come si espresse Giovanni Falcone il giorno dopo la storica sentenza intervistato dal giornalista de “L’ora” Giuseppe Crapanzano: «Dottor Falcone, cosa pensa a caldo della sentenza di ieri?» Falcone: «Esprime certamente un consenso per questi lunghi anni di attività istruttoria, è un invito ed uno sprone ad andare avanti. Dimostra, inoltre, che pur rispettando le regole, si arriva a risultati seri anche nella lotta alla mafia».
«E subito dopo la sentenza, la mafia ha sparato. Che giudizio dà del delitto di Antonio Ciulla?» Falcone: «É la migliore dimostrazione della nostra tesi. Nessuno si può cullare. La sentenza non è un colpo definitivo all’organizzazione criminale. È, semmai, un punto di partenza. Non si ammazza un Ciulla se non c’è la consapevolezza di un appoggio totale della mafia».
«Cosa manca, adesso, per saldare il momento storico della sentenza, la mafia, cioè che in quel dibattimento è stata giudicata, con le nuove identità dell’organizzazione?» Falcone: «La storia è sempre una. Ma fino a quando ci si affiderà ad interventi episodici, si creerà il rischio di indagini a corrente alternata. Occorre, invece, tenere sempre viva l’attenzione sulle dinamiche mafiose. Ancora per molto tempo, sarà necessario ricercare adeguate risposte. Se le indagini saranno invece quelle che si compiono per un qualsiasi reato, il maxiprocesso non sarà servito a niente». Molto interessante la risposta ad un’altra domanda del giornalista che chiede al giudice: «Quali sono le strutture che si rendono necessarie?» (Il giornalista si riferisce alle strutture che possono far fare un salto di qualità all’attività repressiva e giudiziaria. Esigenza questa sottolineata da Falcone nella risposta alla domanda precedente) e la risposta di Falcone è molto interessante: «Innanzitutto una struttura di polizia giudiziaria più adeguata alla quantità e alla qualità del fenomeno, che operi in pieno raccordo con la magistratura. Vorrei aggiungere che non si può prestare poca attenzione alla mafia solo perché sono diminuiti gli omicidi. Paradossalmente, Cosa Nostra è più pericolosa quando non spara. La pace significa riassetto e ricomposizione del potere criminale. Due anni di silenzio, preoccupano. C’è stata un’attività giudiziaria che ha sortito effetti. Ma quel silenzio è anche la spia che l’organizzazione ha una compattezza tale da consentirsi di attendere. Ordina e riesce ad ottenere un blocco delle attività illecite»[13].
Sono parole molto importanti quelle pronunciate da Falcone perché, molto semplicemente, invitano tutti a non abbassare la guardia. Parole valide soprattutto oggi, un periodo in cui la mafia viene vissuta come un’organizzazione criminale che agisce lontano da noi quando è, in realtà, vicinissima a noi. Come scritto nelle pagine precedenti basta semplicemente saper guardare e non farsi ingannare dal silenzio seguito al periodo terribile delle stragi degli anni ’90. Dunque il primo maxi processo celebrato alla fine degli anni ’80 fu un grande successo e il 16 dicembre 1987 le condanne furono numerose ma le sorprese non tardavano ad arrivare. Ci avviciniamo agli anni ’90 e un’altra storia sta per cominciare.
2.2 Dagli anni ’90 ai giorni nostri
La sentenza d’appello del primo maxiprocesso mandò in mille pezzi il “teorema Buscetta” e le pene per i mafiosi ridotte.
Il 30 gennaio del 1992 la sentenza d’appello venne sconfessata. La Cassazione infatti non solo rivalutò il lavoro istruttorio compiuto dal giudice Falcone ma ribadì la responsabilità della “commissione” per quanto riguardava i delitti eccellenti. Venne di fatto respinta la tesi della “responsabilità individuale” portata avanti dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Palermo che di fatto aveva sentenziato l’inconsistenza della Commissione. La “cupola” nel verdetto di secondo grado non venne ritenuta responsabile dei delitti “eccellenti” compiuti a Palermo.
La novità di quell’ultimo verdetto fu, oltre a ripristinare il lavoro portato avanti da Falcone, l’allargamento della commissione a personaggi come Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Nenè Geraci, Pippo Calò e Francesco Madonia.
Totò Riina si scatenò. Il 12 marzo del 1992 a Mondello venne ucciso il politico DC Salvo Lima, proconsole locale di Giulio Andreotti. Il 23 maggio ci fu la strage di Capaci. A morire oltre al giudice Falcone e alla moglie Francesca Morvillo i tre uomini della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo.
Il 19 luglio nella strage di via D’Amelio persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cusina e Claudio Traina. Il giorno 15 gennaio del 1993 Totò Riina venne preso. E venne preso a casa sua a Palermo, com’era prevedibile.
Nell’interrogatorio tenutosi a Rebibbia in quei giorni Riina disse: «Non sono un mostro, sono solo un povero vecchio».
Negò di essere il boss dei boss, negò di essere un mafioso, negò di essere un assassino, un mandante di assassini e di stragi. Soprattutto negò di sapere qualcosa su quella cosa chiamata Cosa Nostra. Quando gli lessero i nomi dei «ventitré uomini d’onore che con lui decisero la morte di Salvo Lima tra i quali Madonia Francesco, Di Trapani Francesco, Brusca Bernardo, Brusca Giovanni, Gambino Giacomo Giuseppe, Troia Mariano Tullio, Calò Giuseppe, Cangemi Salvatore, Riina rispose: «Signor giudice, non conosco nessuno di questi qua. Signor giudice, io conosco solo la mia famiglia, mia moglie, i miei figli. È una vita che mi nascondo, che mi nascondo per sfuggire ad accuse ingiuste. Non sono il mostro che pensate, che tutti pensano. Quel mostro non esiste. Quel che esiste davvero è quel che avete davanti a voi, signor giudice, un povero vecchio malato. Ma ora voglio difendermi dalle calunnie. Voglio difendermi di persona, signor giudice, voglio essere presente a tutti i processi che mi vedono imputato…»[14].
La latitanza del capo dei capi finì in una strada della città di Palermo. Dentro una borgata di mafia dove nacque e morì “il mito di un misteriosissimo corleonese senza volto”. Fra i palazzi della circonvallazione e le abitazioni di Cruillas la mafia siciliana perse il suo dittatore più crudele. Riina venne catturato dentro un’anonima utilitaria imbottigliata in mezzo al traffico di un grande viale. Riina si trovava con il suo autista. Dopo 23 anni, 6 mesi e 8 giorni di latitanza il boss corleonese venne preso così, disarmato.
Una storia criminale lunga, anzi lunghissima, finì grazie ad un’operazione antimafia portata a termine dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale fra le 08.10 e le 08.25 di quel venerdì 15 gennaio 1993.
Davanti ad un motel Agip, esattamente sullo stesso marciapiedi dove anni prima Riina fece assassinare il mafioso Di Cristina cominciando la sua scalata alla Cupola. Prima di quel giorno del 1993 l’ultima volta «Totò u’curtu» era stato visto in un paesino in provincia di Bologna, San Giovanni in Persiceto. La mattina del 7 luglio del 1969 il «sorvegliato speciale» Totò Riina entrò in latitanza. Fino al 1993, quando venne preso e messo definitivamente in galera.
Scrisse Giorgio Bocca il 27 gennaio del 1993: «Riina arrestato, fotografato, interrogato, è la prova che l’incubo continuerà, che ci porteremo dentro chi sa per quanti decenni questo buco nero, questo antistato, questo mondo alieno e irriducibile. Tutto qui il boss dei boss? Un contadino, un semianalfabeta, un provinciale? Sì, tutto qui ma identico a tutti i suoi predecessori, ai Genco Russo, ai Calogero Vizzini. La cattura di Riina e di altri latitanti è stata una buona notizia solo al primo impatto, poi si è capito che se erano rimasti nascosti per decenni con mogli e figli a Palermo voleva dire che l’omertà di massa, il consenso di massa restavano e restano impressionanti, voleva dire che decine di migliaia di persone, centinaia di migliaia non avevano visto , non avevano udito, avevano fornito ai latitanti sicurezza, casa, scuola per i figli, ospedali per gli ammalati o le partorienti, intestatari dei beni dei mafiosi, le centinaia di intestatari delle terre che Riina ha acquistato in questi lunghissimi anni non nel Canada o nel Sud Africa, ma a Corleone. Il mafioso caduto come Riina tace o lascia trasparire dietro la finta umiltà e il finto rispetto, il suo dispregio, la sua incolmabile diversità verso lo Stato; il politico arrestato non resiste a pochi giorni di prigione, parla, mette nei guai amici e conoscenti da cui sa di essere già stato abbandonato.
Tutto qui questo boss dei boss? Già, tutto qui, ma identico ai Liggio, ai Greco, ai Calò, Bontade, Badalamenti, una specie immutabile, dentro regole immutabili. Il Totò Riina uscito dalla lunga latitanza ci dice che la forza della mafia sta nella sua diversità e nel suo radicamento territoriale e culturale»[15].
Il «cronista venuto da Milano» come si definì Bocca quando intervistò Dalla Chiesa aveva ragione quando scriveva che «Riina arrestato, fotografato, interrogato è la prova che l’incubo continuerà, che ci porteremo dentro chi sa per quanti decenni questo buco nero, questo antistato, questo mondo alieno e irriducibile».
Oggi, nell’Italia del 2014, potremmo scrivere che Riina morto è la prova che l’incubo continuerà, che ci porteremo dentro chi sa per quanti decenni questo buco nero, questo antistato, questo mondo alieno e irriducibile.
L’ultimo covo di Riina in cui il boss trascorse gli ultimi istanti prima di essere catturato si trova in via Bernini 54 a Palermo. Una villa su 2 piani, 4 stanze sotto e altrettante sopra, una piscina, una dependance nel giardino. Di questo nascondiglio, confinante col fondo di 30 ettari rastrellato dai carabinieri dopo la cattura del boss, «in città sapevano in tanti da almeno una settimana».
«C’è da dire però che a condurre per mano i giornalisti in via Bernini ieri sono stati gli stessi carabinieri con la solita telefonata: «Abbiamo scoperto il vero covo…è al numero civico 54…»[16].
Finita finalmente la sua pluridecennale latitanza Riina dal carcere non uscirà fino al giorno della sua morte.
Provenzano, dopo le stragi del ’93 a Roma in via Fauro il 14 maggio, a Firenze in via dei Georgofili, il 27 maggio e a Milano in via Palestro il 27 luglio, ha costruito una mafia che non spara, che non fa stragi, presente nella sua apparente invisibilità. Una mafia dal volto buono e dialogante. Naturalmente si tratta di una maschera pronta a rivelare la sua vera natura fatta di ferocia incontrollata e incontrollabile.
Nelle quasi quaranta lettere fatte ritrovare dal pentito Antonino Giuffrè dopo che venne arrestato nell’aprile del 2002 «c’è l’ultimo ritratto della mafia, quella che Bernardo Provenzano vuole adesso dal volto buono ma non per questo distratta dalla sua missione di sempre: ricattare imprenditori e commercianti»[17].
Quando venne arrestato il 16 aprile del 2002 Giuffrè, boss di Caccamo, questi aveva con sé cinque biglietti che provenivano da Provenzano. I “pizzini” vennero fatti ritrovare dal pentito in un casolare di Vicari. Provenzano li scrisse in un periodo databile fra il 6 marzo 2001 e il 13 gennaio 2002. Nelle lettere che tracciavano l’identikit dell’ultimo grande boss corleonese c’era scritto tra le altre cose: «La responsabilità va cercata sempre nelle due parti in causa. Quello che invochi tu lo invoco anche io. Non facciamo colpi di testa, purtroppo in questo paese si susseguono i colpi di testa»[18].
Queste parole confermano il ruolo di paciere dell’anziano boss nello scontro fra il gruppo di Belmonte e altri boss.
Catturato nell’aprile del 2006, l’ultimo dei grandi boss corleonesi rimasto in circolazione morì il 13 luglio 2016 all’ospedale San Paolo di Milano. Tredici anni dopo Riina, toccò quindi a “Binnu” finire nelle patrie galere. Il 16 aprile 2006 Provenzano venne preso in un casolare a Montagna dei Cavalli.
Scrisse Attilio Bolzoni su La Repubblica: «Da quando l’altro era finito in galera, la mafia non ha più sparato un colpo. E lui, sempre in seconda fila, defilato, laterale, ha tenuto in vita un’organizzazione che sembrava spompata»[19].
Tra le polemiche per il 41 bis, lasciatogli fino alla morte, da parte del sostituto procuratore generale Domenico Gozzo e il divieto di funerali pubblici da parte del questore Guido Longo[20] così finì la parabola di uno dei boss mafiosi più spietati che proprio per questo si guadagnò il soprannome di “tratturi”. Il trattore.
Un anno e quattro mesi dopo se ne andrà Riina e le parole pronunciate da Bocca in quel famoso gennaio del 1993: «l’incubo continuerà» soprattutto oggi suonano come profetiche.
[1] Franco Coppola, Ore 9.45: Comincia il Grande processo. Un pentito corregge subito il tiro, «La Repubblica», 11 febbraio 1986, p. 2 Archivio Istituto Gramsci Palermo.
[2] Attilio Bolzoni, “Non voglio presentarmi in aula” anche il “re dell’eroina” rinuncia, «La Repubblica», 15 febbraio 1986, p. 13, Archivio Istituto Gramsci Palermo.
[3] S. Lupo, op. cit., p.13.
[4] Rapporto sulla mafia degli anni ’80. Gli atti dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Falcone inedito: intervista-racconto, (a cura di) Lucio Galluzzo, Francesco La Licata, Saverio Lodato, S.F. Flaccovio Editore, Palermo, 1986, p.47.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] A. Bolzoni e G. D’Avanzo, op. cit., p.22.
[8] Rapporto sulla mafia degli anni ’80, op. cit., p.49.
[9] Ivi, p. 50.
[10] Ivi, p. 51.
[11] Antonio Calabrò, Bobbio: da Palermo un segno di civiltà, «L’ora», 17 dicembre 1987, p.7, Archivio Istituto Gramsci Palermo.
[12] Ecco il gotha di cosa nostra, «L’ora», 17 dicembre 1987, p.12, Archivio Istituto Gramsci Palermo.
[13] Giuseppe Crapanzano, Non fatevi ingannare dalla pace mafiosa. E falcone aggiunge: paradossalmente, cosa nostra è più pericolosa quando non spara. La tregua significa riassetto e ricomposizione del potere criminale, «L’ora», 18 dicembre 1987, p. 3, Archivio Istituto Gramsci Palermo.
[14] Giuseppe Davanzo, Sono solo un povero vecchio. Riina nega di essere il boss dei boss “fatemi vedere in faccia a quei pentiti”, «La Repubblica», 19 gennaio 1993, Archivio Istituto Gramsci Palermo, p. 7.
[15] Giorgio Bocca, Piccolo goffo e logoro ma è pur sempre Riina, «La Repubblica», 27 gennaio 1993, Archivio Istituto Gramsci Palermo, p. 4.
[16] Attilio Bolzoni e Umberto Rosso, Tutti i lussi di Riina. Palermo, quella villa del boss nel parco dorato degli imprenditori, «La Repubblica», 3 febbraio 1993, Archivio Istituto Gramsci Palermo, p. 17.
[17] Salvo Palazzolo, Autoritratto di Provenzano paciere, filosofo ed affarista, «La Repubblica Palermo», 3 agosto 2005, Archivio Istituto Gramsci Palermo, p. 6.
[18] Ibidem.
[19] Attilio Bolzoni, La morte di Provenzano il boss-fantasma che viveva nell’ombra, «La Repubblica», 14 luglio 2016, Archivio Istituto Gramsci Palermo, pp. 10-11.
[20] Alessandra Zinniti, Provenzano, ultimo atto il pg Gozzo critica il 41 bis “vendetta non giustizia”, «La Repubblica Palermo», 14 luglio 2016, Archivio Istituto Gramsci Palermo, p. 2.