A partire dal calcio l'Italia è tutta da riformare. La nota positiva è che esistono ampi margini di miglioramento. Palla al centro e via.
di Lamberto Colla -
Parma, 29 giugno 2014 -
Non poteva che essere altrimenti. L'Italia nazionale di calcio è stata anch'essa, come gli spagnoli, rimandata a casa, alla fine del primo turno mondiale, incapace di sostenere la competitività agonistica delle due squadre sudamericane. Affrontare le sfide con l'idea di portare a casa il minimo risultato è , come insegna l'esperienza, una sconfitta certa.
L'avventura della nazionale di calcio ha rappresentato la metafora dell'intero nostro Paese tranne che per una circostanza: la solidità etica di chi ha guidato, seppur fallendo, la compagine italiana. E non è stato necessario nessun tipo di pressione mediatica o giudiziaria per indurre il CT Prandelli a rassegnare le sue dimissioni. Un gesto che fa onore prima all'uomo e poi al tecnico.
Forse sono state errate le scelte degli atleti che hanno composto la rosa dei partecipanti, forse anche i cambi in corso di gara, fatto sta che mentre lui, Prandelli, recita il mea culpa, gli uomini che in campo non hanno saputo guadagnarsi nemmeno gli onori che si riservano agli sconfitti, tacciono o ancor peggio si giustificano ritenendo i 16 milioni di telespettatori tutti ottenebrati dall'alcool quindi incapaci id interpretare un misera e semplice partita di pallone.
Tutto questo, esclusi i comportamenti di Prandelli e di Abete, sono la fotocopia del nostro Paese. Responsabilità da scaricare sugli altri e gli immensi guadagni invece privati e, come è ovvio, ben meritati.
Così come l'Italia economica e politica anche quella del calcio ha vissuto questi anni di crisi nella sopravvalutazione delle proprie risorse, nella presunzione di possedere skills rilevanti e capaci di fare la differenza, di contare troppo sulla creatività dell'ultimo minuto, la stessa che tante volte ha contribuito a riportaci ai vertici mondiali sia che fossero le pennellate di Pablito Rossi o le performance di qualche illuminato imprenditore.
Troppo poco per emergere e poi restare a galla in sistemi sempre più competitivi. Sistemi nei quali ogni giorno entrano nuovi attori capaci, preparati, affamati di gloria e motivati dalla determinazione a emergere. E noi, piccola nazione cullata sul mediterraneo, abbiamo la presunzione di mantenere un posto al sole senza nulla fare e nulla cambiare.
In assenza di organizzazione, di senso di compartecipazione e di sacrificio, di rispetto delle regole e della consapevolezza che la vera forza propulsiva deriva dal gruppo, continueremo ad assistere a tanti e frequenti fallimenti e a pochi e sporadici casi di successo.
L'orizzonte è arrivare a sera, poi domani, sarà un altro giorno e chissà che qualcosa di buono accada. La pratica attendista è diffusa in tutti i settori e è entrata nella mentalità di molti. Non fare niente, cercare qualche scappatoia, cercare di creare delle piccole "lobby di villaggio" in grado di garantire qualche piccolo privilegio e intanto le grandi e potenti lobby, quelle vere, modificano le norme, penetrano silenziosamente nei nostri tessuti vitali, indeboliscono il nostro organismo e infine ci impongono una cura costosissima con l'unica medicina esistente per quel male. E allora giù a piangere a dare la colpa agli arbitri (leggi UE) o alle scorrettezze altrui.
Vivere costantemente sul filo del rasoio prima o poi ci si taglia. E' successo alla nazionale di calcio sta accadendo all'intero Paese.
Che si apprenda quindi dalla metafora calcistica un insegnamento: risvegliare l'orgoglio e mettersi a disposizione della nazione e del suo CT di turno Non possiamo più essere in balia di un arbitro o di una "troika".
Riprogettare il futuro!