Anzi, sarebbe meglio dire che non è all’ordine del giorno di alcun partito dell’arco parlamentare. Già nel 1974 Manlio Rossi-Doria, tra i più grandi interpreti del pensiero meridionalista, ammoniva ricordando che la Questione Meridionale è una questione nazionale. Allora come oggi, il divario Nord-Sud rappresenta il vulnus dell’Italia e non affrontarlo significa non potersi porre come interlocutori credibili nello scenario internazionale. Va da sé che un Paese a due velocità è debole. Né ci può essere margine di crescita per uno Stato che rifiuta a priori il contributo di una parte importante del suo territorio e dei suoi cittadini.
‘‘Il Sud, in cui vive un terzo degli italiani, produce un quarto del prodotto nazionale lordo; rimane il territorio arretrato più esteso e più popoloso dell’area dell’Euro”: è quanto viene riportato nella Consultazione pubblica SUD - Progetti per ripartire, del 23 marzo 2021 della Banca d’Italia.
Allora come oggi, l’inerzia e l’incapacità politica hanno contribuito alla decrescita del Paese, e dal Sud la miseria avanza lambendo oramai la Linea Gotica.
La Questione Meridionale risale ai tempi dell’Unità d’Italia, con ciò intendendo lo stato di arretratezza economica del Mezzogiorno rispetto alle altre regioni italiane, soprattutto quelle settentrionali. Nel 1861, anno in cui avvenne la proclamazione dell’Unità d’Italia, il reddito per abitante nel Mezzogiorno era di un quarto inferiore rispetto a quello delle regioni del nord Italia. Da quell’anno si creò un frattura che non ha mai smesso di allargarsi, tanto che nel 1911 La Voce, uno dei più importanti periodici del Novecento, pubblicò su una sua intera prima pagina un articolo dal titolo “Le due Italie”. Quella crepa, diventata voragine, rischia di far precipitare nel baratro l’intero Paese.
E’ del 2014 il patto del Nazareno, l’accordo politico tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, l’uno segretario del Partito democratico e l’altro presidente di Forza Italia. Dal patto, secondo gli estensori, dovevano scaturire una serie di riforme (alcune poi diventate leggi, ancora in vigore), tra cui quella del titolo V della Costituzione, la trasformazione del Senato in "Camera delle autonomie" e l'approvazione di una nuova legge elettorale. Emergeva – ed emerge - un dato comune di fondo dall’intero impianto legislativo: l’esclusione della partecipazione popolare.
Questo vale principalmente nel Meridione, dove il Partito democratico ha radicato un suo sistema di governo, infeudando i tanti comuni, gestiti da ristrette oligarchie. Come in Puglia, per esempio.
Giorgia Meloni, nel discorso d’insediamento del 2022, dichiarava alle Camere: “Sono convinta che questa svolta che abbiamo in mente sia anche l’occasione migliore per tornare a porre al centro dell’agenda Italia la questione meridionale. Il Sud non più visto come un problema ma come un’occasione di sviluppo per tutta la Nazione. Lavoreremo sodo per colmare un divario infrastrutturale inaccettabile, eliminare le disparità, creare occupazione, garantire la sicurezza sociale e migliorare la qualità della vita. Dobbiamo riuscire a porre fine a quella beffa per cui il Sud esporta manodopera, intelligenze e capitali che sono invece fondamentali proprio in quelle regioni dalle quali vanno via”. A rileggerle ora, queste parole suonano come una ulteriore beffa ai danni del Sud.
Ad ottobre prossimo, l’attuale Esecutivo (composto da 15 esponenti del Nord, 5 del centro e 6 del Sud e delle Isole) compirà il suo primo anno di attività. Riuscirà a rompere i sistemi di potere delle nuove e vecchie classi dirigenti meridionali, spesso un tutt’uno con pezzi poco trasparenti della società politica, burocratica e imprenditoriale?