Ma vediamo i passaggi che hanno portato alla emanazione della pronunzia in esame.
La convivente di un uomo deceduto promuoveva un giudizio nei confronti dei figli e degli altri coeredi di quest’ultimo al fine di ottenere il riconoscimento del proprio diritto alla liquidazione della propria quota di partecipazione all’interno dell’impresa familiare per il periodo nel quale aveva prestato la propria attività lavorativa.
In virtù della legge sulle unioni civili per conviventi di fatto si intendono due persone maggiorenni uniti in modo stabile da legami affettivi di coppia e che si prestano reciprocamente assistenza morale e materiale.
Nonostante tale chiara definizione, però, tanto il Tribunale quanto successivamente la Corte d’Appello rigettava le richieste della donna ritenendo di non poterla qualificare quale familiare ai fini del riconoscimento dei diritti della stessa nell’ambito della impresa familiare.
La donna, però, non si dava per vinta e ricorreva alla Corte di Cassazione, le cui Sezioni Unite sollevavano la questione di legittimità costituzionale degli articoli del codice civile concernenti l’impresa familiare.
La Corte Costituzionale ha, quindi, accolto la questione di legittimità partendo dal presupposto che non può non tenersi conto, nell’interpretazione delle norme nonché nel testo delle stesse, dei mutamenti radicali della società e dell’evoluzione giurisprudenziale.
La famiglia (e, quindi, anche le coppie) di fatto devono godere di assoluta dignità nonché del pieno riconoscimento dei diritti
Di conseguenza, secondo la Corte Costituzionale la prestazione lavorativa, nell’ambito dell’impresa familiare, del convivente deve essere tutelata per evitare che la stessa venga ad essere qualificata prestazione a titolo gratuito.
La Consulta ricorda, infatti, che quando si verte in materia di diritti fondamentali dell’individuo essi devono essere garantiti in egual modo a tutti, sia che si tratti di famiglia fondata sul matrimonio sia che si tratti di famiglia di fatto.
Il lavoro è un mezzo attraverso il quale viene garantito il rispetto dell’art. 2 della Costituzione, secondo il quale la Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che come appartenente a formazioni sociali.
Essendo la famiglia una delle principali formazioni sociali, la Corte Costituzionale ha ritenuto non corretto non considerare il convivente di fatto quale componente dell’impresa familiare.
La Corte ha, quindi, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo del codice civile riguardante l’impresa familiare nella parte in cui non prevede il convivente di fatto nel novero dei familiari, alla pari del coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, e non qualifica impresa familiare quella nella quale lo stesso collabora.
(*) Autore
avv. Emilio Graziuso - Avvocato Cassazionista e Dottore di Ricerca.
Svolge la professione forense dal 2002 occupandosi prevalentemente di diritto civile, bancario – finanziario e diritto dei consumatori.
Docente ai corsi di formazione della prestigiosa Casa Editrice Giuridica Giuffrè Francis Lefebvre ed autore per la stessa di numerose pubblicazioni e monografie.
Relatore a convegni e seminari giuridici e curatore della collana "Il diritto dei consumatori" edita dalla Key Editore.
Presidente Nazionale Associazione "Dalla Parte del Consumatore".
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