Belluno, 18 febbraio 2024 - Uno degli attuali giudici della Corte costituzionale, il prof. Luca Antonini, in un’opera monografica del 2000 intitolata «Il regionalismo differenziato», osservava come «le sfide della globalizzazione rendono urgente la necessità di prospettare nuove forme di autogoverno democratico della società…ed un forte impulso ed una forte logica a favore di una devoluzione del potere verso il basso» anche al fine, continua l’autore, di «rigenerare le identità locali».
Si tratta di un punto di vista che, purtroppo, non tiene in debito conto l’attuale situazione del Paese in cui non solo i divari tra Regioni sono ulteriormente aumentati rispetto all’inizio del secolo (si veda il costante incremento della mobilità sanitaria interregionale che ha raggiunto un valore di 4,25 miliardi di euro (dati Fondazione Gimbe riferiti al 2021)), ma all’interno degli stessi territori non mancano squilibri economici e sociali (si pensi, a titolo esemplificativo, al rapporto tra aree montane ed aree di pianura all’interno della medesima realtà regionale). Sbaglia il Presidente della Giunta regionale del Veneto, Luca Zaia, quando tenta di respingere l’obiezione secondo la quale le richieste di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, ai sensi dell’art. 116, comma 3, della Costituzione vigente, non comportano una «secessione dei ricchi».
Sul punto l’affermazione del Presidente leghista dà per scontato che ci si trovi di fronte ad un quadro assestato e consolidato del finanziamento delle Regioni e, con esso, del quadro della perequazione: in realtà, il fondo perequativo destinato alle spese concernenti i LEP (cioè i livelli essenziali delle prestazioni) non è stato istituito e la stessa determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire in modo uniforme nel territorio nazionale è stata affidata, ex art. 3 del disegno di legge A.S. n. 615 (c.d. «Calderoli» già approvato dal Senato), ad uno o più decreti legislativi delegati da adottarsi da parte del Governo della Repubblica entro ventiquattro mesi dall’entrata in vigore della legge senza, peraltro, che il Parlamento possa minimamente incidere se non nella parte finale del procedimento per l’ottenimento della «maggiore autonomia» ove è richiesta una «deliberazione» delle Camere rappresentative sull’intesa raggiunta tra Stato e Regione (art. 2, comma 8, del disegno di legge A.S. n. 615), lasciando indirettamente intendere un ruolo di approvazione o respingimento dell’accordo con esclusione di qualunque possibilità di apportare degli emendamenti (eppure il testo della Costituzione è chiaro: il Parlamento approva la legge di autonomia negoziata (e non una deliberazione) sulla base dell’intesa e non in conformità ad essa, pena il venir meno del principio costituzionale di autonomia dei due rami del Parlamento italiano).
A questo si aggiunga che il conferimento delle funzioni legislative ed amministrative sulle «materie» oggetto di negoziazione tra lo Stato e le Regioni finisce, in alcuni settori particolarmente importanti e strategici, di andare ben al di là di quanto consente lo stesso art. 116, comma 3, del Testo costituzionale: l’istruzione, ad esempio, presenta addentellati con la materia del diritto del lavoro (l’assunzione dei docenti etc.) che non rientra in alcun modo tra quelle da devolvere alle Regioni. Per non parlare poi delle c.d. «materie trasversali» (l’ambiente), così definite dalla giurisprudenza costituzionale, che vanno intese come valori da realizzare nell’ambito delle competenze tra Stato e Regioni ordinarie delineate dalla Costituzione nell’art. 117, più che come materie da conferire.
Da ultimo, come è stato acutamente rilevato (Cfr. B. DEIDDA, L’autonomia differenziata spacca il Paese, in Questione Giustizia, 02 maggio 2023), l’art. 5 del disegno di legge «Calderoli» attribuisce all’intesa tra Stato e Regioni il compito di definire le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale. È il mito del «residuo fiscale». Nel nostro ordinamento giuridico, però, a pagare le tasse sono le persone e non le Regioni e lo fanno sulla base dell’ammontare del loro reddito e non del luogo di residenza. In questo modo la disposizione normativa dell’art. 5 viola il principio, ricavabile dal combinato disposto degli artt. 2 e 53 della Costituzione, per cui la solidarietà economica e tributaria deve operare unicamente a livello nazionale e non su base territoriale.
In conclusione, ci troviamo di fronte all’attuazione di una norma costituzionale che non solo presenta serie criticità sul piano costituzionale e altera la stessa linearità dell’art. 116, comma 3, Cost., ma contribuisce a creare le condizioni per un clima di ostilità all’interno della comunità nazionale.
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autore
(*) Professore strutturato in Diritto Costituzionale e
Diritto Pubblico Comparato
presso la SSML/Istituto ad Ordinamento universitario
«san Domenico» di Roma.
Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico.