Sabato la 32enne di Seattle è stata la protagonista della giornata conclusiva della prima edizione del Festival della Giustizia Penale al Forum Monzani di Modena. Sono passati 12 anni dall’omicidio di Meredith Kercher e la ragazza americana è stata assolta con sentenza inappellabile “per non aver commesso il fatto”, ma molti hanno giudicato la sua presenza “inopportuna”.
Di Manuela Fiorini – foto di Claudio Vincenzi
MODENA –
Se c’era un modo per attirare l’attenzione dei media nazionali, e non solo, sulla prima edizione di un festival che, altrimenti, avrebbe probabilmente interessato solo gli “addetti ai lavori” e qualche curioso è stato invitare un personaggio “scomodo”, controverso. In questo caso Amanda Knox, la 32 enne americana di Seattle che per quasi otto anni ha infiammato dibattiti, riempito pagine di giornali e dato voce a fior fior di opinionisti.
E il senso dell’invito di Amanda al Festival per prendere parte a un dibattito sul “processo mediatico”, sta tutto nell’introduzione di Guido Sola, Presidente della Camera Penale di Modena, tra i promotori dell’iniziativa. “Se l’errore è in natura”, ha detto Sola, “è in natura altresì l’errore giudiziario. La verità assoluta non esiste, la verità è per sua natura approssimativa. Il processo penale è per sua natura alla ricerca della verità”. Ma quanti tipi di verità ci sono?
Secondo Sola “C’è una conoscenza profana, che è quella dei cittadini, dei “non addetti ai lavori”, una conoscenza processuale, attraverso la quale viene ricostruita la vicenda processuale, e la conoscenza mediatica, che aggrava lo scollamento che esiste tra la conoscenza profana e quella giudiziaria. La conoscenza mediatica contribuisce a deformare la conoscenza processuale.
Mentre il Processo Penale non si lascia “leggere” nella sua interezza e complessità da chi non ha competenze giuridiche, il Processo mediatico opera a livello istintivo e per sua natura genera danni perché può permettersi di giungere a conclusioni usando persino la fantasia per introdurre elementi “avvincenti” per fare presa sul pubblico. Ma nello stesso tempo distrugge la vita di persone vere. Il processo mediatico crea il “mostro” ancor prima che inizi il processo penale, spesso tenendo conto solo dell’accusa e non della difesa.
Poi Sola parla di numeri: nel 2017 sono state accettate 1013 domande di risarcimento per ingiusta detenzione. Negli ultimi 25 anni le domande accolte sono state 26.550 su oltre 52 mila. Un’introduzione e cifre che, indubbiamente…fanno riflettere.
L’intervento di Amanda Knox
Poi tocca a lei, Amanda. Prende la parola con il viso provato dalla tensione di questi giorni. Ha accettato l’invito di Italy Innocence Project e su Twitter aveva annunciato di “tornare in Italia da donna libera”.
Visibilmente emozionata, ripercorre le tappe del suo rapporto con l’Italia. “Questo è il mio terzo soggiorno. La prima volta è stata quando avevo 14 anni con la mia famiglia, abbiamo visitato il Colosseo, mangiato lumache sulla Costiera Amalfitana…”, E prosegue con la voce rotta dall’emozione: “Sono tornata a 20 anni e ho incontrato la tragedia e la sofferenza”. Sono tornata per la terza volta perché lo dovevo fare, sono stata invitata da Italy Innocence Project e perché una volta sentivo questo paese come una casa e spero di sentirlo di nuovo così un giorno”.
Amanda ammette di avere avuto paura a tornare: “Tanta gente pensa che io sia pazza a venire qui, che non è sicuro, che verrò attaccata e falsamente accusata. Ho paura oggi, di essere molestata, derisa, incastrata, ho paura che mi vengano rivolte nuove accuse perché oggi vengo qui a raccontare la mia versione dei fatti”.
E la versione di Amanda è che la sera in cui Meredith è stata uccisa “io e Raffaele non eravamo là”. C’è un colpevole: Rudy Guede è stato catturato, processato e condannato, eppure un numero sorprendente di persone non ha mai sentito il suo nome, perché i media hanno incentrato l’attenzione su di me”. E continua: “con i furgoni delle TV ammassati davanti a casa, i poliziotti erano sotto una pressione immensa, che chiedeva loro di arrestare al più presto un colpevole. Hanno deciso di indagarmi, questa decisione era basata su prove fisiche, testimonianze, non era basato su nient’altro che su un’intuizione investigativa”.
Mentre il tono si fa più saldo, quasi con rabbia Amanda ripercorre i primi interrogatori, “mi hanno interrogata per 50 ore in cinque giorni, privandomi del sonno”, “in una lingua che non conoscevo bene e senza un avvocato”. “Alla fine mi hanno fatto firmare una dichiarazione…”. Proprio questi particolari renderanno inutilizzabili i risultati di quei primi interrogatori.
È molto dura anche nei confronti dei media, “che negli Stati Uniti sono la prima linea di difesa contro le autorità che frettolosamente ci privano della nostra libertà e in questo caso avrebbero potuto chiedere: “Avete arrestato tre persone, in base a quali prove? Così facendo avrebbero potuto incentivare la polizia a tirare i freni. Invece qui non hanno fatto altro che fomentare quelle idee che facevano loro più comodo, la storia più avvincente, quella che avrebbe fatto più audience”.
Le parole di Amanda si fanno più dure: “I giornalisti mi hanno ribattezzato “Foxy Knoxy”, i media si sono impegnati in speculazioni sfrenate. Sul palcoscenico mondiale io non ero una imputata innocente fino a prova contraria, ero una furba, psicopatica, sporca e drogata puttana, colpevole fino a prova contraria”. E continua: “Io avevo fiducia che la mia innocenza mi avrebbe rivendicata. Poi ho sentito il giudice pronunciare la parola “colpevole”, il verdetto mi è caduto addosso come un peso schiacciante”.
Crolla ancora per l’emozione, Amanda, quando rivive i quattro anni di carcere, dove l’incontro con i familiari era concesso per sole 6 ore al mese, in colloqui di un’ora che passava in fretta, di quando implorava suo padre di farla uscire e di avere pensato anche al suicidio. Parla ancora del rapporto con Don Saulo, il cappellano del carcere, di come l’abbia ascoltata, ma non creduto alla sua innocenza, almeno all’inizio. Si sofferma sulla figura del PM Mignini, “una figura da incubo, un mostro, un uomo potente e spaventoso che aveva come unico obiettivo: distruggere la mia vita” e che le piacerebbe “incontrarlo faccia a faccia”, perché “l’immagine che avevo di lui era sbagliata, un’immagine piatta, come Foxy Knoxy. Nel documentario Netflix ho visto un uomo con ambizioni, che aveva la volontà di rendere giustizia a una famiglia distrutta”.
E a proposito di Meredith, (“Non avevo motivo di ucciderla, era una mia amica”, ha detto Amanda nel corso del suo intervento), si chiede “Ha avuto giustizia?” “Non ha avuto giustizia perché non è più viva. La sua famiglia ha dovuto sopravvivere in un sistema di ansie, verità distorte…Mi dispiace per loro. C’è un assassino in carcere e almeno in questo ci può essere soddisfazione…”.
Alla fine del suo intervento, Amanda riceve gli applausi di rito e torna a sedere per continuare la tavola rotonda. Sulla sua presenza a Modena il “popolo dei social” si è scatenato con ogni sorta di commenti, quasi tutti in un’unica direzione: è una furba che “l’ha fatta franca” e in Italia non è la benvenuta. Di fatto, c’è una sentenza basata su documenti probatori di cui la maggior parte di chi continua ad accusarla basandosi su metodi lombrosiani o sentimenti “di pancia” non è a conoscenza. E poi c’è la verità, anzi, le verità: la sua, la nostra, quella del Processo Penale e quella del Processo Mediatico.
Le tappe del “delitto di Perugia”
Nella notte tra il 1° e il 2 novembre 2007, una studentessa inglese di 22 anni, Meredith Kercher, viene trovata morta, uccisa con una coltellata alla gola, in una casa di via della Pergola, a Perugia, dove si trova per l’Erasmus. L’allarme viene dato all’ora di pranzo del 2 novembre dalla sua coinquilina, l’americana Amanda Knox, allora 20 anni, che rincasa insieme al fidanzato, Raffaele Sollecito, allora 23. Ancora prima dell’inizio delle indagini, parte il “processo mediatico” ad Amanda e Raffaele. La loro vita privata viene sezionata, le immagini dei due ragazzi che si abbracciano e si baciano mentre sono in corso i primi sopralluoghi fanno il giro del mondo. L’opinione pubblica si scalda e subito si focalizza su Amanda: troppo bella, troppo furba, ride troppo…deve essere stata lei. In un primo tempo, forse per paura, Amanda accusa dell’omicidio di Meredith Patrick Lumumba, allora 37 anni, congolese e titolare del locale dove l’americana lavora di tanto in tanto. Lumumba, sposato e padre di un bambino piccolo, viene arrestato e rimane per due settimane in carcere, prima che un testimone lo scagioni. Amanda viene condannata a tre anni per calunnia e sconterà la pena.
Nel frattempo, in scena entra Rudy Guede, 21 enne ivoriano che da tempo vive a Perugia. L’impronta della sua mano insanguinata viene trovata sul cuscino sul quale è adagiato il corpo della povera Meredith, sul tampone vaginale fatto alla vittima vengono rinvenute tracce del suo DNA, così come in altre parti della casa. Viene confermata come sua anche un’orma insanguinata, in un primo tempo attribuita invece a Sollecito. Guede viene rintracciato a Magonza, in Germania, dove era fuggito perché, a suo dire, temeva di essere coinvolto nell’omicidio. Ammette di essere stato in quella casa la notte in cui Meredith è stata uccisa, ma di non essere stato lui. Accetta, tuttavia, di essere processato con rito abbreviato. Il ché gli vale una condanna a 16 anni anziché 30. L’accusa è di “concorso in omicidio”, insieme ad Amanda e a Raffaele che, secondo l’accusa, avrebbero ucciso Meredith durante un gioco erotico finito male. Più avanti, si parlerà invece di litigi tra Amanda e Meredith per le pulizie di casa.
Nel frattempo, comincia la lotta a suon di prove, prima confermate e poi smentite, ma talmente labili, contaminate e “non attendibili” da portare prima alla condanna di Knox e Sollecito, poi alla completa assoluzione. Il 5 dicembre 2009 Amanda Knox e Raffale Sollecito vengono condannati in primo grado a 26 e 25 anni dalla Corte di Assise di Perugia. Nel novembre 2010 inizia il processo di secondo grado, sempre sotto gli occhi di telecamere e riflettori, che si conclude il 3 ottobre 2011 con l’assoluzione dei due imputati e la loro scarcerazione. Il colpo di scena arriva il 26 marzo 2013, quando la Cassazione annulla la sentenza di secondo grado e rimanda alla Corte d’Appello di Firenze per un nuovo processo d’appello, che inizia il 30 settembre 2013.
Amanda è tornata negli Stati Uniti, dove l’opinione pubblica la difende e dove lei dichiara di rimanere per timore di tornare in carcere in caso venga confermata una sentenza sfavorevole: l’accusa, infatti chiede 30 anni per lei e 26 per Sollecito. La sentenza arriva il 30 gennaio 2014: il quarto verdetto condanna Amanda a 28 anni e 6 mesi e Raffaele a 25 anni per concorso in omicidio. La parola torna alla Cassazione, che il 28 marzo 2015 annulla senza rinvio le condanne ad Amanda Knox e a Raffaele Sollecito e li assolve “per non aver commesso il fatto”.