Di Andrea Caldart (Quotidianoweb.it) Cagliari, 23 novembre 2024 - Durante il conflitto in corso tra Israele e i territori palestinesi, una "guerra di narrazione" ha affiancato quella purtroppo reale, amplificandone la portata delle operazioni belliche e trasformando le piattaforme digitali in strumenti di controllo informativo.
Secondo un recente rapporto del Comitato speciale delle Nazioni Unite, che monitora la situazione nei territori palestinesi occupati sin dal 1968, il governo israeliano ha esercitato un’influenza significativa sulle principali piattaforme social.
Dati sconcertanti emergono nel periodo successivo al 7 ottobre 2023: oltre 21.000 richieste di rimozione di contenuti sarebbero state inviate a giganti come Meta (che controlla Facebook e Instagram) e TikTok. Di queste richieste, circa il 92% sarebbe stato accolto, con una netta disparità nell'applicazione della moderazione.
Le rimozioni si sarebbero concentrate su post che offrivano prospettive favorevoli ai palestinesi o criticavano apertamente le azioni del governo israeliano, mentre contenuti che incitavano alla violenza contro i palestinesi avrebbero ricevuto un trattamento molto più indulgente.
Questo squilibrio, afferma il rapporto, rappresenta una strategia deliberata per soffocare le narrazioni critiche e mantenere un dominio sulla percezione pubblica del conflitto.
Ma la censura non si limita alla rimozione di post. Il rapporto ONU parla di un ecosistema digitale manipolato in modo più sofisticato, attraverso reti di troll di Stato, fact-checker compiacenti e collaboratori che intervengono attivamente per influenzare le discussioni online.
In questo contesto, qualsiasi critica al governo di Benjamin Netanyahu o richieste di tregue umanitarie vengono etichettate come “filo-terroristiche,” creando un clima di repressione anche per gli utenti occidentali.
L’influenza israeliana non si limita alla repressione diretta. Il sistema sfrutta strumenti più subdoli, come l’alterazione degli algoritmi, per nascondere contenuti scomodi o amplificare voci allineate alle posizioni ufficiali.
Gli utenti che tentano di condividere informazioni sulle vittime civili nei territori occupati, o che denunciano presunti crimini di guerra, spesso vedono i loro contenuti rimossi o limitati nella visibilità, a favore di narrazioni istituzionali.
A conferma di quanto riportato dall'ONU, le critiche al governo israeliano sono diventate terreno minato.
L'accusa di antisemitismo o filo-terrorismo è diventata un'arma retorica per neutralizzare opinioni dissidenti. Questo clima ha suscitato preoccupazioni anche all'interno della comunità internazionale.
Papa Francesco, in una recente dichiarazione, ha riconosciuto il dramma umano del conflitto, condannando apertamente la sofferenza inflitta ai civili e facendo eco alle accuse di "genocidio" rivolte al governo israeliano.
La repressione digitale, quindi, non è solo una questione di piattaforme, ma parte integrante di una strategia bellica più ampia, dove il controllo dell’opinione pubblica è cruciale quanto il controllo del territorio. L’uso sistematico di censura e manipolazione sui social network rappresenta un nuovo fronte, che minaccia non solo la libertà di espressione, ma anche la possibilità di una comprensione equa e bilanciata della realtà.
Le implicazioni di questa “guerra di narrazione” sono enormi. L'ONU ha ammonito che queste pratiche erodono ulteriormente la fiducia nelle piattaforme digitali e mettono a rischio il pluralismo informativo.
Se i social diventano armi nelle mani dei governi, quale spazio rimane per la verità e per la critica?
Mentre il conflitto sul campo continua, la battaglia per il controllo della narrativa non mostra segni di rallentamento.
In questo scenario, la lotta per una rappresentazione equa del conflitto mediorientale sui social media diventa una delle sfide più urgenti per i sostenitori della libertà di informazione e della giustizia globale.