Mi limiterò, dunque, a definire i contorni di codesto delitto senza entrare nel merito della vicenda. Il canone 751 del Codex iuris canonici vigente del 1983 definisce lo scisma come "il rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice o della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti". A differenza dell'eresia e dell'apostasia, lo scisma non è caratterizzato dalla negazione di verità di fede. Infatti, il suo elemento costitutivo è la negazione del primato del Papa o di altre cause concernenti l'unità della Chiesa cattolica.
Non perfeziona, però, il delitto di scisma la disubbidienza o la contestazione al Romano Pontefice tale da non negare il suo primato o le altre cause legate all'unità della Chiesa. A norma del canone 1364 la pena per questo delitto è la scomunica "latae sententiae", cioè non legata ad una specifica dichiarazione, ma connessa al solo fatto della commissione del delitto. Esso può essere posto in essere da un laico e da un chierico, ma solo quest'ultimo è punito con le pene indicate nel canone 1336, paragrafo 1, del Codice di diritto canonico: si tratta di pene espiatorie quali, ad esempio, pagare una ammenda o una somma di denaro per le finalità della Chiesa, disporre la privazione di alcuni uffici, incarichi, ministeri etc.
Se poi lo scandalo è grave o si verifica una prolungata contumacia nel tempo, non è esclusa la dimissione dallo stato clericale.
Di norma, sul piano strettamente procedurale, spetta all'Ordinario del luogo o al Gerarca rimettere la scomunica o svolgere il processo in prima istanza o extragiudiziale, a meno che, ed è questo che interessa Mons. Viganò, per mandato del Romano Pontefice non sia il Dicastero per la dottrina della fede (trattandosi di un Vescovo) ad intervenire direttamente ai sensi dell' art. 1, paragrafo 2, SST.