Sabato, 04 Novembre 2023 06:45

“Lavoro migrante” - Diserzione a senso unico. One-way escape. In evidenza

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Di Francesca Dallatana Parma, 4 novembre 2023 - Al mio Paese non torno neanche da morto. L’ho capito durante la traversata, in mezzo a quella massa lurida di catorci urlanti.

L’ho deciso quando ho messo i piedi a terra e credevo di essere ritornato ad essere una scimmia perché non mi reggevo sulle gambe e la schiena non stava diritta. E quando sono arrivato al nord, dove sono andato a chiedere lavoro e casa allo Stato, l’ho pensato ad ogni respiro. Al mio Paese ho lasciato una moglie e un figlio. Lavoravo in una fabbrica di divani dopo la laurea in letteratura francese. L’unico lavoro possibile. Il mio Paese è sicuro, secondo gli europei. Così sicuro che mi hanno legato le gambe e le braccia a due asse incrociate perché ho detto quello che pensavo e ho frequentato un gruppo politico. Io dovevo tacere. Allora mi hanno allargato le braccia e le gambe e le hanno strette alle asse. Le corde erano forti e sicure, quelle sì.  L’acqua fredda a secchiate in faccia e sul corpo per ore diventa più tagliente di una lama affilata. Le bastonate sul palmo delle mani e sulle piante dei piedi sono indelebili nella memoria. Non rido più da allora. E non sopporto sentire gli altri ridere.

Loro ridevano, quando mi bastonavano. Quando cercavano di lavare via con la purezza dell’acqua gelida la mia colpa politica, loro ridevano. Fremevo sotto l’eco delle risate.

Ho il naso schiacciato e la fronte bassa. Ho gli occhi piatti. Le palpebre non si vedono più. Ciglia e sopracciglia sono scomparse. Se non fosse per la barba che rado con precisione ogni giorno sarei glabro. Ho alcune fissazioni. Devo sempre avere i vestiti asciutti. Quando piove non sopporto l’umidità addosso. Devo sempre essere pulito. L’odore dei corpi ammassati durante il viaggio in mare mi ha impregnato il naso. Non riconosco più l’odore dell’erba bagnata. Le urla e le risa, parlare a voce alta, gridare al telefono: questi suoni per me sono come lo stridore di unghie sbrecciate sull’ardesia di una lavagna.

Sono venuto al nord. Dove ho una casa vecchia ma asciutta, un letto con le coperte. Mi lavo con l’acqua calda. Mangio regolarmente. Vado a scuola. Imparo l’italiano. Non parlo con nessuno dei miei coinquilini. Puzzano come quelli del barcone. Con gli operatori dico qualche parola in più. Studio. Penso. Vedo il mio futuro qui prendere una forma, anche se ancora confusa.

I rumori sono ovattati e il tempo è lento. La rabbia sempre in ebollizione dentro di me. Due ritmi diversi. L’ultimo miglio del progetto di accoglienza cammina piano.

Il lavoro arriva dopo avere conosciuto le regole, i contratti, i doveri e i diritti. Dopo avere imparato ad essere un cittadino italiano.  Ma io non ho tempo. Voglio lavorare con le braccia in una fabbrica, una qualunque. Non mi importa dello sfruttamento. Ottocento, mille euro vanno bene anche se lavoro sedici ore al giorno. L’operatrice, occhio appuntito, non conosce il mondo al di là del mare. Forse non conosce neanche quello fuori da questi muri. Scriviamo un curriculum, simuliamo un colloquio di lavoro, contattiamo le agenzie. Faccio colloqui, vedo fabbriche. Non trovo lavoro. Lento e lungo, il tempo dell’attesa. E tra poco non avrò più un tetto né una coperta a sopire l’inquietudine del corpo. Occhio appuntito continua la ricerca, continuiamo ad incontrarci. Ne parlo con un altro operatore, faccia aperta e sguardo liquido. Mi dice di una donna che organizza squadre presso fabbriche che lavorano la carne di maiale. Si cambia stabilimento ogni giorno. Maiale dappertutto. Io non sono musulmano, posso farlo. E’ un lavoro violento, dice lei. Il freddo delle celle frigorifere non annulla l’odore del sangue, il fetore di morte. Quanto pagano? Quattrocentocinquanta euro al mese, se lavori come tirocinante. Tre mesi pagati con i nostri fondi e poi ti assumono loro, dice lui.  Portano le persone al lavoro con un piccolo bus ogni giorno e le riportano in città. L’operatore mi presenta, se lo voglio. L’operatrice lo aggredisce e gli dice che lei non porta i lavoratori ai caporali. Mi guarda e mi dice che è un lavoro senza tutela, peggiore di uno illegale.

E’ un lavoro bugiardo.  

Lei con gli occhi trafigge il collega e gli dice che i soldi dello Stato sono dei cittadini italiani e non possono pagare il lavoro sfruttato di un lavoratore debole, l’ultimo anello della catena sociale. Lui sorride e mi strizza l’occhio. Voglio il lavoro, dico io. Lei alza la voce e gonfia il corpo, gli avvicina gli spuntoni degli occhi alla faccia e gli dice che è un vile. Lui si scioglie dal duello senza spade, inclina lo sguardo a terra e inguaina i denti con le labbra in un finto sorriso. Il tempo si ferma e rivedo un alterco tra i trafficanti. Lei lo avrebbe gettato in mare se lui non se ne fosse andato. Lei lo avrebbe trafitto e gli avrebbe schiacciato il cuore con il tacco dello stivale fino a spremerlo fino all’ultima goccia di sangue, se lui non si fosse ritirato dietro la corazza della vigliaccheria.

Lui se ne va. Me ne vado anche io. Il giorno dopo comincio il lavoro.

Il pulmino ha sette posti. Siamo tutti neri, tranne l’autista che è rumeno. Sono l’unico a capire l’italiano. Fuori fa freddo, i finestrini sono chiusi. Subito cominciano le telefonate, le parole urlate dentro i microfoni dei telefoni rimbalzano tra i vetri appannati e risuonano in una eco ad effetto multiplo. Mi rimbomba la testa, pulsano le tempie. Si tolgono le scarpe e due di loro sputano e ridono. La mente si ferma e sento le bastonate sulle piante dei piedi, sul palmo delle mani.

C’è puzza di umanità scadente, fuori di me. Il cuore fibrilla, dentro.

Il genere umano è sempre lo stesso. Cambia solo il palcoscenico.

Arriviamo quando pensavo di non farcela a superare il viaggio. Il rumeno urla di uscire e scendere. Fuma un’altra sigaretta dopo tutti i mozziconi accesi lanciati dal finestrino socchiuso.

La fabbrica è bianca con larghe vetrate all’ingresso. Noi entriamo da una porta piccola e nascosta. In una piccola stanza mi danno i vestiti da lavoro, la cuffia, gli stivali di gomma, i guanti. I compagni di viaggio sono silenziosi ma puzzano ancora.

Entriamo in un labirinto di corridoi e di stanze con carcasse di animali appesi. Camminiamo e il freddo si infila tra la tela del vestito del lavoro e la pelle che si impregna dell’odore ferroso del sangue.

I muri trasudano morte. Rivedo le asse incrociate. Eravamo in tre appesi come animali o forse eravamo ancora di più. Quando sei troppo in alto non vedi che cosa succede intorno. I lavoratori sono asettici e bianchi. Il freddo congela il silenzio. Camminiamo ancora. Mi dicono che cosa devo fare: trasportare le carcasse da una parte all’altra della fabbrica. Ne carico una, poi una seconda. Mi inginocchio e cado in terra quando metto sulle spalle la terza. In un lampo di fatica vedo le asse e il corpo di un amico. Lo hanno bastonato tanto da farlo morire. Lo hanno portato via proprio come io carico questi animali.

Mi tolgo la cuffia. Sento urlare dentro le orecchie. Mi tolgo la tunica bianca. Corrono verso di me. Prendo gli stivali di gomma e li scaravento contro il muro. Il rumeno si avvicina con ampie falcate e cerca di fermarmi.

Corro fuori alla ricerca del vento. Cammino da solo e al freddo pulito dell’inverno. Cammino per ore. Il cervello sprofonda in una tregua silente senza desideri.

Salgo su un bus di linea. Non ho il biglietto, dico all’autista. Non importa lo puoi comprare qui, dice lui.

Mi addormento. Nel sonno, ritornano le immagini degli operatori travestiti da lottatori che si affrontano come in combattimento fra cani drogati in uno spiazzo polveroso e si azzannano al collo mentre il rumeno sogghigna e li guarda. L’autista mi sveglia e io esco dal sogno.

Via, via, vado via da qui. Finisce il progetto di accoglienza e vado più a nord. Qualche parola di tedesco la capisco. Perché al mio Paese sono passati tutti, i tedeschi prima, poi gli inglesi e i francesi. Se ne sono andati senza distruggere i loro fantasmi, le loro lunghe ombre. In Germania lavoro in magazzino. Mi rompo la schiena di stanchezza e di notte mi alterno nello stesso letto con un mio conoscente: dormo quando lui va al lavoro e viceversa. Si passa da un magazzino all’altro, assunto a tempo indeterminato da un’agenzia per il lavoro che affitta il mio lavoro dove trova. Mi è passato il freddo anche se fa freddo ma non vedo il mio futuro qui. Ritorno a sud.

L’operatrice dagli occhi appuntiti mi ascolta di nuovo e mi propone incontri con agenzie per il lavoro. Riscrive il mio curriculum e fa spiccare il lavoro in Germania. Firmo un contratto per quindici giorni in una fabbrica che produce scatole di plastica. Un lavoro duro. Vivo da un amico, lontano dalla fabbrica. Ogni giorno vado al lavoro in bicicletta: pedalo per quindici chilometri all’andata e lo stesso al ritorno. Piova oppure nevichi. Mi fa male la schiena. L’operatrice dice di non abusare della malattia ma di fermarmi quando non sto bene e di parlarne con il medico e con il responsabile del personale. Mi dice di rimanere dentro il perimetro della legalità. Di credere nello Stato. Mi fido di lei.

Il lavoro va avanti per anni.  Sono arrivati mia moglie e mio figlio.

Adelina e Jean, insieme in un Paese straniero, lei ed io. Lei, delicata e morbida; io ombroso e ruvido come un orso ferito e diffidente.

Mi sono ritirato nel silenzio della mia vita, non faccio rumore e parlo a bassa voce. In questi anni ho cercato di attutire i graffi della memoria.

Sono diventato un cittadino italiano. Parlo poco con le persone. Non dico niente di me. Neri o bianchi, gli uomini sono tutti della stessa brutta razza.  

Per il mio Paese sono un disertore. Io diserto anche da morto.

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