Di Giorgio Militano (testo e immagini) Parma, 26 gennaio 2022 –
Una domenica come le altre, ma con tanta voglia di fare qualcosa di diverso.
“Andiamo al mare?”
“No, non ho voglia di guidare così tanto e poi la benzina costa un sacco adesso, ma forse ho in mente un posto”. Ero stato a Viadana con mio nonno quando ero piccolo e la serenità di vedere il Po in tutta la sua grandezza che mi aveva trasmesso la ricordavo come fosse appena successo.
Presi il telefono, aprii una mappa e mi misi a guardare i dintorni di Viadana costeggiando il corso del fiume più grande d’Italia. Lessi un nome, non potei far altro che ripeterlo sconcertato:
“Isola degli internati?!”
Non capivo cosa fosse quel posto, era indicato come un parco naturale ma aveva il nome di un manicomio.
Era una mattina uggiosa, la bassa reggiana era offuscata da una nebbia fitta e densa: insomma, la mattina perfetta per visitare un posto sconosciuto, situato chissà dove e che porta un nome tutt’altro che rilassante.
“Partiamo!”
Impostai il navigatore e lo seguimmo fino ad un piazzale mezzo asfaltato e mezzo no, situato subito dopo l’argine.
Scendemmo dalla macchina, lo scenario era abbastanza tetro da lasciarci senza parole: uno spiazzo con una macchina grigia, di chissà chi; nebbia, nebbia a quintali; alberi a perdita d’occhio e due strade, una a destra e una a sinistra, “chissà dove portano” pensai.
Camminammo poco, qualche decina di metri su quella passerella scivolosa bagnata dalla foschia.
Lo scenario attorno a noi era inquietante, la cima degli alberi si confondeva con il cielo, nascosto da quel velo bianco tanto fitto da non permettermi di capire se fossero nuvole o nebbia.
“Pazzesco” continuavo a ripetermi, “un posto del genere a mezz’ora da casa, è una follia”.
Più mi sforzavo di guardare in lontananza e meno riuscivo a vedere, quando ad un certo punto i miei occhi si imbatterono in qualcosa di grosso, qualcosa di gigantesco “non posso crederci!”
“Cosa? Che succede?”
“Guarda lì!”
Un relitto, una gigantesca nave militare, almeno così mi sembrava, affondata in un piccolo braccio secondario del Po.
“Ma questa, qui, come diamine ci è finita?”
“Non ne ho la minima idea”
Una cosa la sapevo bene però: quella domenica mattina a pochi minuti di macchina da casa avevo trovato uno dei posti più pazzeschi che avessi mai visto e mai avrei potuto immaginarmi che una cosa del genere esistesse nelle nostre zone, sembrava una scena Hollywoodiana.
Restammo a bocca aperta: quel posto, quel nome… era perfetto.
Tornammo a casa la sera, ma ancora non potevo crederci: dovevo sapere di più. Cominciai le ricerche, ecco cosa scoprii.
Questo incredibile posto è situato tra Boretto e Viadana, a nord del comune di Gualtieri e nonostante possa sembrare incredibile, dato il nome che porta, l’unica connessione che ha con la follia è legata alla storia del pittore Antonio Ligabue, il quale durante alcune delle sue crisi si recava nel suddetto posto per avere un incontro faccia a faccia con la pace della natura.
Ma quindi questo particolare nome da dove deriva?
La domanda è ben posta e la risposta si trova incredibilmente lontano, sia nello spazio che nel tempo.
Dobbiamo salire a nord, ma non di qualche chilometro, dobbiamo salire a nord di centinaia, quasi migliaia di chilometri tra la Germania e la Polonia e viaggiare indietro nel tempo fino al 1945.
Lo scenario pare ormai chiaro, si parla di nazisti ma in particolare dei campi di concentramento.
Il termine internati ora è di più facile comprensione.
Questa ex isola, ora penisola, fu il luogo che il sindaco di Gualtieri affidò a quindici internati militari italiani (o IMI): soldati fatti prigionieri di guerra a seguito del voltafaccia italiano dell’8 settembre 1943, avvenuto con l’Armistizio di Cassibile.
A quest’epoca risalgono anche le tre navi affondate che possiamo ammirare all’interno della golena, le quali tuttavia non sono navi da guerra; si tratta, invece, di due chiatte adibite al trasporto di materiali da costruzione e una pirodraga.
L’offerta del sindaco fu per gli internati una rinascita, fu la loro possibilità di ricostruirsi una vita, dopo averla vista andare in frantumi nei casermoni di qualche campo nel nord Europa, storditi dal freddo di un clima al quale la pianura padana non li aveva abituati.
Così, a partire dal 1945 questi quindici uomini, talvolta aiutati dalle loro famiglie, si presero cura di quest’isola sulle sponde della quale cominciarono a coltivare il salice selvatico, e a vendere agli artigiani le fascette elastiche che ne ricavavano le quali venivano poi adoperate per creare le famose ceste di Boretto.
Questo luogo magico bloccato tra passato e presente, come in bilico tra la vita e la morte smise di ricoprire il suo ruolo sociale a metà degli anni ’50, quando con il rinnovato benessere economico le risorse del fiume persero di importanza.
Al giorno d’oggi il lembo di terra, per quanto possa non averne l’aspetto, è un’oasi naturale adibita anche a cava di sabbia, ma nonostante i quasi 80 anni che ci separano dalla storia di questo posto riesce ancora a mantenere il suo tetro fascino.