Occhi verdi appuntiti, sguardo incantatore da serpente. E’ biondo, i capelli tagliati a spazzola, le spalle potenti, il fisico asciutto. Dentro la tuta mimetica e sotto il passamontagna potrebbe essere chiunque.
E’ un combattente.
Dalla guerra se ne è andato questa volta. Una è bastata. Quella in mezzo al deserto del mondo. Volevano riportare la civiltà. Ma la democrazia non la si inocula, come un vaccino. Non era proprio una guerra. Li avevano chiamati in loro difesa. E lui non c’era. Era il 1979 quando i sovietici sono intervenuti in Afghanistan, una forza amica, in aiuto al Paese. L’hanno chiamata invasione.
C’era suo padre.
Qui ed ora, come nel primo Mc Donald’s aperto a Mosca nel 1990, il pavimento deve essere pulito: era l’incubo degli operatori, allora. Facevano le pulizie e accoglievano i clienti. Sorridevano all’incertezza di uno strano nuovo inizio consumista della capitale dell’Impero russo ancora sovietico.
In Germania un’officina è una clinica dell’auto. Un medico di un altro Paese potrebbe scambiarla per una camera operatoria. E’ uno spazio nel quale il motore deve essere rianimato dal sonno meccanico e messo nelle condizioni di marciare. Un rombo nuovo verso il futuro.
Non si parla, con la schiena piegata su un motore. Si osserva, si pensa. Il tempo intorno si ferma. Una bolla di silenzio protegge il lavoro.
Il fischio delle bombe è ovattato, nell’officina. Ma tuona nel profondo delle orecchie, le sue.
Si è mimetizzato in fretta, anche senza tuta d’ordinanza. L’aspetto etereo, la comunicazione essenziale, l’espressione cortese pennellata su una mimica del volto rigida.
Ai tedeschi somiglia. Parla la loro lingua con sospetto e attenzione. L’ha studiata a Odessa, dove ha frequentato l’Università.
A testa china sopra i motori, lui lavora. A riparare le macchine ha imparato nell’esercito, durante il servizio militare. Era pronto per la guerra, ma questa volta la battaglia da combattere l’ha scelta lui. E se ne è andato. Ha varcato il confine in automobile, una valigia con due paia di scarpe e pochi abiti di ricambio ma per tutte le stagioni. Se ne è andato al nord, nel cuore dell’Europa.
Via da Odessa, Febbraio 2022
(Odessa)
I documenti, il lavoro, la casa: tutto in fila: facile per uno che parla tedesco, che non vuole essere assistito. E che non ha paura di lavorare.
In officina, il lavoro è cadenzato dai ritiri delle auto, dalle consegne e dal tempo vigoroso ma lento della riparazione. Aspettare la rinascita di un motore attutisce il boato delle bombe, il fracasso disordinato dei vetri rotti, la paura sudata di adrenalina che si appiccica al cervello.
Un motore ha una musica inconfondibile, un ritmo terapeutico. Per chi se ne va dalla guerra, come lui. Questa doveva essere un’operazione speciale, un regolamento di conti. Poi sono intervenuti tutti ed è diventata una guerra.
Occhi da serpente più aguzzi dei suoi lo aspettano al risveglio di uno dei motori ricoverati in clinica. Uno sguardo pungente in agguato alle spalle, quando si rialza dal cofano. Sentiva la presenza ma pensava fosse una delle sue ombre mentali, una delle presenze oscure che il suo gruppo familiare gli aveva imposto in eredità genetica.
Pelle ambrata e occhi verdi, un naso grosso sotto una fronte sottolineata da rughe orizzontali. Un volto attraversato dai segni del tempo e arato dal rasoio ogni mattina, prima dell’officina.
Nessun truciolo sul pavimento, niente barbe islamiche né partug né kurta. Al lavoro in Germania, faccia aperta e pulita e tuta blu d’officina, guanti e scarpe anti-infortunistica.
L’immagine dell’afghano con la barba incolta, i pantaloni sciolti e la casacca lunga, gli stivali di pelle fino alla caviglia si sovrappone a quella della tuta blu, stirata e pulita. Per una frazione di pensiero l’ucraino non distingue l’immaginazione dalla realtà. Sente la faccia tagliata dal sole.
L’afghano è un meccanico di esperienza. L’ucraino è un meccanico di intuizione e di talento. L’afghano ha imparato il lavoro in Germania, lo ha coltivato giorno per giorno. In Afghanistan ha combattuto per sopravvivere; in Germania lotta ogni giorno per garantire la tenuta. L’ucraino ha fatto accesso al file antico della memoria. Ha intuito un volto familiare sotto la barba di una vecchia fotografia trovata fra le carte di suo padre.
L’afghano sa di essere stato riconosciuto. L’ucraino riavvolge il film di suo padre che si sveglia nel cuore della notte, corre fuori nel buio, urla e rientra e annega nella vodka. Quando l’hanno mandato in Afghanistan era un giovane soldato di leva, poco più di un pioniere. L’Afghanistan per lui: l’inferno sulla terra. Una dannazione che gli ha tolto il sonno. Che lo ha sbattuto giù dal letto in preda al delirio, al panico. Al terrore di essere sgozzato, macellato da vivo, appeso per il collo con le gambe tagliate e l’adrenalina in corpo che non lo lascia morire. Ha sepolto il ricordo nella scatola nera della memoria.
Colonnello in Afghanistan. Una condanna a morte.
In Afghanistan tutto taglia. Il sole impietoso scolpisce la faccia. Il vento ferisce le mani. Il freddo incolla gli occhi alle palpebre. Il caldo comprime il respiro sotto la sabbia sgretolata dalle rocce scheggiate dall’altopiano.
Al centro del mondo, senza il mare intorno, finisce il tempo. Nel tempo fermo della pietraia afghana, il corpo diventa una fortezza di nervi, una macchina da guerra. Gli afghani della pietraia sono capaci di agguati e di brutalità. Sono abituati alla solitudine e alla fatica di sopravvivere. La parola è un orpello sociale superfluo.
Gli afghani non sono facilmente riconoscibili. In Afghanistan sono passati tutti, molti con gli occhi chiari e ciascuno con un dio diverso a imporre un’altra legge. Per i militari sovietici, soprattutto ragazzi russi e ucraini e tatari e uzbeki e siberiani è stato un incubo. Non un’invasione: un delirio di onnipotenza manovrato da un burattinaio di fuori che guarda dalla cabina di regia. Protetto dal vetro dell’opportunismo.
Questa è la terra di nessuno alla fine del mondo, fuori dall’immaginario della Storia. Dove la violenza è un urlo senza fine. Dove le urla si disperdono nelle gole della terra e nessuno può sentirle.
L’afghano e l’ucraino hanno la stessa età. L’afghano ha imparato il russo da suo padre. Suo padre ha imparato il russo dai sovietici. Lo ha insegnato al figlio perché capire una lingua straniera permette di difendersi. Da quando è cominciata la competizione al lavoro si sono scambiati tre parole e poco più, in tedesco.
Afghanistan, 1979: invasione sovietica; Germania, 2022: via da Odessa.
(Afghanistan)
Il giorno in cui l’ucraino ha deciso di annullare l’afghano, l’officina è piena di macchine. Sembrava il triage di un pronto soccorso di una grande città. Silenziosa di parole, affollata di marmitte. Le auto avevano tutte le pastiglie dei freni consumate, come se tutti avessero corso in discesa con il piede sul freno. Fra tutte, quella idonea per il suo scopo era una Uaz, una vecchia jeep militare sovietica, dal cofano sufficientemente pesante e dall’apertura laboriosa, ma sufficientemente ampio per le manovre. Era una jeep vecchia di uno strano proprietario, di poche o nessuna parola.
Chi ha combattuto con il corpo contro i corpi dimentica le parole. Ricorda, ma non dice.
Annullare l’afghano significava cancellare la competizione. Non c’è l’uomo, non c’è il problema. Da quando aveva cominciato ad incontrarlo in officina, l’insonnia era ritornata nelle notti tedesche e ogni notte gli riportava il fantasma di suo padre, vagante e veemente, sanguinante e nella palude profonda della depressione. Se ne era andato per manu militari: si era impiccato nel bosco convinto che gli afghani lo avrebbero catturato, gli avrebbero tagliato la gola e lasciato agonizzante a testa in giù. Era a Odessa, nella foresta lungo la ferrovia che corre verso L’vov, ma lui era convinto di essere ancora in Afghanistan. Un convincimento durato per il tempo necessario del suicidio. Meglio una morte nobile piuttosto di finire tra le mani dei barbari.
Nessuno sapeva da dove venisse l’afghano, a parte chi aveva scritto il contratto di lavoro.
Solo l’ucraino lo aveva già visto sotto la barba dai negativi delle fotografie in bianco e nero scattate da suo padre, durante la missione in Afghanistan.
La trasferta militare in Afghanistan per suo padre era stato un lavoro forzato, una scelta obbligata, come la sua migrazione in Germania. Il padre si era difeso scattando fotografie a raffica. Aveva sviluppato i negativi ma non aveva mai dato alle stampe le immagini. Il figlio le aveva guardate, tutte, controluce nelle frizzanti mattine di Odessa, nella casa sul grande viale che sfocia sulla gradinata, verso il mare.
Il cofano è pesante, le molle resistenti. L’afghano piega il corpo, accende la torcia, illumina il motore. L’ucraino lo osserva. E’ un’imboscata vigliacca. Non infuoca la guerra, intorno. Un’azione non lecita. Colpisce il cofano per farlo rimbalzare indietro e cadere in avanti, sulla testa dell’afghano. Ma la cerniera resiste, si blocca. L’afghano punta i gomiti, si rialza. Il cofano non salta, non si sgancia, non ricade sulla testa, non rompe il collo. Spade di guerra inguainate, i corpi in assetto da battaglia.
Il vuoto, intorno. Silenzio. C’è attesa per il combattimento.
Ma è un affare privato. Non per i tedeschi. Neanche loro sanno quanto sia privato.
L’ucraino colpisce il cofano. Forza la chiusura. Ruggisce la Uaz, li porta fuori dall’officina, nel campo aperto della battaglia. Inevitabile la rissa sulla spiaggia di Rostock. Senza testimoni. E senza pietà.
Non ha lavato via, il mar Baltico, le ombre dalle menti dell’ucraino e dell’afghano.
Ferri vecchi arrugginiti, le guerre. Quelle di oggi, quelle di ieri. Contagiose per generazioni.
Rostock, macchine da guerra.
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(Link rubrica: lavoro migrante ” https://www.gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=lavoro%20migrante&ordering=newest&searchphrase=exact&limit=30 )