Allarme lavoro. Dal Capo dello Stato arriva una sollecitazione a fare presto riforme coraggiose.
di Lamberto Colla ---
Parma, 04 maggio 2014 -
Mentre i sondaggi indicano un miglioramento del sentiment di fiducia degli italiani, gli indicatori economici gridano che la crisi è in piena forma. +22% i fallimenti registrati nel primo trimestre 2014 secondo Unioncamere mentre per Unimpresa ben 3 aziende su 5 devono ricorre alle banche per pagare le imposte.
Da un lato quindi il primo intervento di cura palliativa e l’energia personale messa in campo da Renzi sembra abbia generato un effetto positivo sui consumatori, dall’altro il rullo compressore della crisi sta proseguendo a falcidiare imprese e lavoro senza tregua.
I veri nodi da sciogliere sono Lavoro, quindi occupazione, e Investimenti industriali. L’allarme lavoro è stato lanciato anche dal Presidente della Repubblica nel discorso del primo maggio. “Se volessimo dare un nome alla celebrazione di questo 1° maggio, dovremmo forse dire "Allarme lavoro". Ho scórso con attenzione una fitta serie di dati, aggiornati fino a ieri, sul calo dell'occupazione maschile e femminile nel 2013, sulla discesa ulteriore del numero degli occupati specie nelle classi di età tra i 15 e i 34 anni e tra i 35 e i 49, sulla riduzione del tasso di occupazione, sulla crescita della disoccupazione, e su numerosi altri aspetti del fenomeno complessivo della crisi che ha colpito in questi anni in Italia, e in gran parte d'Europa, il mondo del lavoro, dell'impresa e del lavoro, assi portanti dell'economia e della società. E che cosa può suscitare se non allarme l'aver toccato il 13% del tasso di disoccupazione, l'aver superato la soglia dei 3 milioni di senza lavoro?”
La pigra e lenta routine burocratica deve essere rapidamente superata per dare nuovo impulso alle residue energie di coloro che hanno voglia di intraprendere, che non si rassegnano e nemmeno si lasciano assuefare dal fatalismo.
L’allarme lavoro, quindi, deve essere uno stimolo a una reazione forte da parte di tutti e, conclude il Presidente, “s'impongono riforme razionalizzatrici - dal mercato del lavoro al sistema tributario - e politiche severe di impiego trasparente e produttivo del danaro pubblico, incidendo su sprechi, corruzione, privilegi e parassitismi.”
Bene ha fatto il Presidente a sollecitare delle riforme coraggiose affinché la locomotiva industriale italiana riprenda a camminare. ma perchè una locomotiva cammini occorre che ancora esista un locomotore, mentre stiamo osservando una cantiere industriale nazionale in demolizione o in via di trasloco (vedi Fiat) piuttosto che in costruzione.
Simbolo e vanto di una nazione industriale è sempre stata l’acciaieria. Un’industria simbolo di forza, qualità e resistenza. Un settore strategico dove l’Italia ha sempre dimostrato di valere in qualità e competitività che appare in smantellamento e allo sbando totale, orfano di quelle politiche industriali necessarie e indispensabili per i settori strategici.
L’ultimo esempio è il caso dell’alto forno di Piombino della “Lucchini”, tra le pochissime acciaierie mondiali a essere specializzata in rotaie di 108 metri. Tra una ventina di giorni l’impianto sarà definitivamente spento e con esso la speranza di lavoro di molte famiglie toscane. Ma qualcun altro prenderà il posto del fornitore Lucchini perché le rotaie sono ancora richieste così come pure i prodotti degli altiforni tant’è che prossimamente la Germania tornerà a investire su questa tecnologia.
Distruggere il lavoro è molto semplice ricostruire lavoro e occupazione molto difficile. La vera ricchezza sta nell’occupazione piena di un popolo non nel patrimonio complessivo. Serve che il capitalismo riemerga a guida dell’economia italiana e non più a vassallo della finanza.
I facili guadagni della finanza hanno attratto come sirene i capitali dell’industria e una volta ottenuti li ha trattenuti bruciando non già i miliardi di euro che invece sono solo traslocati ma milioni di posti di lavoro, know How altamente specializzati e vanto della tecnologia nostrana svaniti in un batti baleno. Distretti produttivi alienati in pochissimi anni e organizzazioni efficienti evaporate per lasciare spazio al vuoto assoluto o al massimo a microimprese artigianali nei casi più fortunati. Un patrimonio incalcolabile perduto definitivamente.
E’ una mia personale convinzione ma il modello economico legato alla finanza è il principale responsabile della crisi e porterà a nuova povertà incrementando quindi il gap tra ricchezza e la sua distribuzione già molto elevata se si pensa che il 10% delle famiglie italiane possiede quasi il 50% (46,6%) della ricchezza. Una prerogativa comunque non esclusiva posto che in Inghilterra, ad esempio, le 5 famiglie più abbienti hanno un patrimonio equivalente a quello del 20% più povero del paese.
Un divario che non può che portare a tensioni sociali pericolosissime e dalle conseguenze potenzialmente drammatiche.
La egemonia della finanza in questi ultimi 30 anni ha generato problemi crescenti. Diseguaglianza, povertà, degrado morale, conflittualità e esasperato individualismo sono i suoi frutti. Forse val la pena di riprendere il Vangelo: “Guardatevi dai falsi profeti, li riconoscerete dai loro frutti”.
Lo stesso Papa Francesco si è esposto in tal senso sostenendo che il “Denaro è lo sterco del Diavolo”.
Non credo che sia il “denaro” in quanto tale il problema bensì l’uso irresponsabile. Il problema quindi sta sempre nell’uomo e l’individualismo spinto, simbolo di questo periodo storico.
Occorre coraggio per guardare avanti ma è necessario farlo. Occorre che tutti facciano un passo indietro per farne fare uno in avanti alla nazione.
Liberare il lavoro da lacci e lacciuoli lasciando alla innata italica creatività di emergere attraverso i suoi giovani e i suoi ancora attivi esodati. Convincere i grandi capitalisti a investire nuovamente in tecnologie e imprese reali abbandonando la speculazione finanziaria e facendo rientrare la finanza nei giusti ranghi: un mezzo strumentale all’impresa.
In questa situazione di emergenza e complessità la vera risorsa è la politica sana e responsabile capace di prendere decisioni coraggiose e non di parte o addirittura dei pochi e soliti nemmeno tanto ignoti.