Quante volte abbiamo sentito affermare, con enfasi ed in occasione delle ricorrenze civili della Repubblica da tutte le forze dell'arco "costituzionale", queste espressioni, vere e proprie "preghiere civili" della liturgia statolatrica. In realtà, siamo in presenza di "flatus vocis" da recitare periodicamente al fine di mantenere in piedi il culto della Costituzione, dello Stato moderno e dei relativi dogmi. Tuttavia, i Testi costituzionali moderni, pur nella loro evoluzione, in quanto prodotti del razionalismo politico, pretendono di assorbire la vita sociale, sussumendola nel modello da esse rappresentato e da esse facendola dipendere. In ragione di questo, le Costituzioni prescindono, lo osserva molto bene il prof. Giovanni Turco, "dalla concretezza della sedimentazione naturale e storica della comunità", con l'ovvia conseguenza che l'organizzazione della società si esprime unicamente attraverso quella dello Stato e dell'ideologia da esso assunta di volta in volta, anzi attraverso lo Stato e nello Stato, non più custode, ma creatore del diritto.
Contestualmente, da tale constatazione si profila una duplice autonomizzazione assiologica: quella della persona ridotta ad individuo rispetto ad ogni vincolo anteriore e superiore alla Costituzione, i cui disposti modulari ed elastici favoriscono proprio l'esercizio della sua libertà negativa sia pure nell'ambito dei limiti (sempre mobili e soggetti ad essere spostati in avanti) posti dall'ordinamento, sia dello Stato rispetto a principi trascendenti che non può riconoscere come superiori, dal momento che risulterebbero sottratti alla sua sovranità, alla sua "plenitudo potestatis".
In questo modo, lo Stato fonda, diversamente dal teorema di Böckenförde (1930-2019), il suo unico meta valore assoluto: il continuo bilanciamento di principi ed interessi, costituzionalmente positivizzati, funzionali a realizzare evolutivamente la società. Entrambi, però, ossia l'individuo e lo Stato, risultano ovviamente svincolati dall'orizzonte delle loro finalità essenziali e della loro natura filosoficamente intesa secondo il pensiero classico, ponendosi al di là di qualunque normatività intrinseca alla natura delle cose (come insegnano il Pizzorni e Berti il passaggio dall'essere al dover essere non avviene secondo l'esistenza, ma sulla base dell'essenza che le teorie positivistiche, legate ad una prospettiva illuministica e meccanicistica, non prendono minimamente in esame) per cui si fanno interpreti del trionfo del nichilismo dove, poiché nulla rimane nelle mani dell'uomo che ha esaurito le folli possibilità della sua autodeterminazione, si apre lo spazio oscuro del non-umano.