Nel testo inerente all'attuazione del comma 3 dell'art. 116 della Costituzione vigente che consente alle Regioni ordinarie di ottenere, tramite intesa con lo Stato, forme e condizioni particolari di autonomia legislativa e conseguentemente anche amministrativa, il ruolo del Parlamento italiano viene completamente marginalizzato. In particolare, l'art. 2, comma 8, del d.d.l. A.C. n. 1665 (già approvato da Palazzo Madama) stabilisce che, una volta raggiunta l'intesa definitiva con la Regione interessata, il Governo della Repubblica presenti il disegno di legge con allegato il testo dell'accordo per la deliberazione delle Camere ai sensi della norma costituzionale sopra invocata.
Ora, a parte il fatto che il comma 3 dell'art. 116 del Testo fondamentale parla espressamente di una legge da approvarsi a maggioranza assoluta dei componenti dei due rami del Parlamento e, dunque, di una precisa fonte-atto di produzione del diritto (si parla tecnicamente di una legge ordinaria rinforzata per procedimento e contenuto) e non di una vaga "deliberazione", il tenore dell'art. 2, comma 8, del disegno di legge c.d. "Calderoli" lascia intendere che Camera e Senato si limitino a prendere atto del testo dell'intesa senza poter intervenire. Tuttavia, la Costituzione sul punto ed in linea con il principio di autonomia delle due Assemblee attribuisce al Parlamento un ruolo ben più ampio: non solo di rigetto del contenuto dell'intesa, ma anche della facoltà di apportarvi delle modifiche.
La disposizione costituzionale parla di una legge da approvarsi "sulla base dell'intesa" e non conformemente alla stessa. Ci troviamo di fronte, in conclusione, ad una maggioranza parlamentare, non solo in confusione, ma completamente priva di una visione autenticamente "federale" nel senso pieno del termine secondo la lezione di Cattaneo.
Non basta obiettare che questo percorso è una opportunità consentita dallo stesso Testo fondamentale a seguito della riforma del Titolo V avvenuta nel 2001 (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3): non solo non tutte le riforme vengono al meglio, anzi perpetuano l'errore di fondo del 1948, ossia, nello specifico, continuare a regolare i rapporti tra Stato e Regioni sulla base di materie (pagine bianche le definiva il prof. Livio Paladin riempite di contenuti dalla giurisprudenza del giudice delle leggi) e non secondo politiche pubbliche, ma corrono il rischio, attraverso la regionalizzazione di ulteriori competenze, di porre le premesse per un centralismo di secondo livello sempre più burocratizzato e lacerante dell'unità nazionale.
(*) Autore - prof. Daniele Trabucco.
Associato di Diritto Costituzionale italiano e comparato presso la Libera Accademia degli Studi di Bellinzona (Svizzera)/UNIB – Centro Studi Superiore INDEF (Istituto di Neuroscienze Dinamiche «Erich Fromm»). Professore universitario a contratto in Diritto Internazionale e Diritto Pubblico Comparato e Diritti Umani presso la Scuola Superiore per Mediatori Linguistici/Istituto ad Ordinamento Universitario «Prospero Moisè Loria» di Milano. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico e titolare di Master universitario di I livello in Integrazione europea: politiche e progettazione comunitaria. Già docente nel Master Executive di II livello in «Diritto, Deontologia e Politiche sanitarie» organizzato dal Dipartimento di Economia e Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale. Socio ordinario ARDEF (Associazione per la ricerca e lo sviluppo dei diritti fondamentali nazionali ed europei) e socio SISI (Società italiana di Storia Internazionale). Vice-Referente di UNIDOLOMITI (settore Università ed Alta Formazione) del Centro Consorzi di Belluno.
Sito web personale www.danieletrabucco.it