Tutto questo ha reso l’eletto alla carica di «Governatore» ostaggio dei potentati locali. Il regionalismo, ideato come strumento di controllo dei cittadini, ha prodotto l’effetto contrario. Guardiamo il settore sanitario che assorbe l'80% del bilancio: imperdonabile è avere, per decenni, ridotto la sanità a mero problema di costi, subordinando la tutela del più fondamentale (non l'unico ovviamente) dei diritti costituzionali a una logica aziendalista, incapace di prendersi realmente cura delle fragilità derivanti dalle malattie.
Da enti di programmazioni, le Regioni sono divenute carrozzoni burocratico-amministrativi. Le differenze tra territori regionali, che si riflettono in servizi disomogenei a livello nazionale non addebitabili solo a sprechi e inefficienze che pur ci sono, amplifica la sperequazione già esistente a favore delle comunità più autonome, incentivando ulteriori richieste di «finta» autonomia (sulle materie del comma 3 dell'art. 116 della Costituzione pende l'ipoteca dei criteri di individuazione elaborati dopo la riforma del Titolo V dalla Corte costituzionale), con riflessi negativi sulla stabilità politica e sull'uguaglianza sociale nel Paese.
Le Regioni furono varate per motivi eminentemente di equilibrio politico, non perché le si ritenesse necessarie ai fini di una migliore organizzazione dello Stato.
Insomma, bisognava dare un po’ di potere ai comunisti lì ove erano più forti: in Toscana, in Emilia-Romagna, in Umbria. Invano, in Parlamento, si opposero missini, liberali, monarchici, persino con un durissimo ostruzionismo. Democristiani, repubblicani, socialdemocratici, socialisti, comunisti prevalsero.
Una vera autonomia passa, invece, da una seria e autentica valorizzazione di Comuni e Province: funzioni amministrative proprie chiare e precise (via quelle conferite), ampia autonomia statutaria, ma soprattutto impositiva.
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Autori Vari (*):
Cav. Dott. Matteo Pio Impagnatiello (Unidolomiti)
Prof. Daniele Trabucco (Libera Accademia degli Studi di Bellinzona (Svizzera)/INDEF)