Di Lorenzo Bertolazzi 28 dicembre 2020 - Questa epidemia è stata, tuttavia, la prima della storia ad essere vissuta ininterrottamente 24 ore al giorno: dichiarazioni, commenti lampo, conferenze stampa in grande stile, report giornalieri, corrispondenti, inviati speciali, presenze fisse di ministri, virologi ed esperti (o presunti tali), insomma un grande vortice mediatico difficile da seguire e gestire.
Chi ne esce con le ossa rotte sono in primo luogo i media tradizionali, in secondo luogo (ma non per importanza) la comunicazione dei rappresentanti dell’esecutivo o, più in generale, dell’unità di crisi (se così si può chiamare) che, per forza di cose, ha dominato in lungo e in largo i palinsesti, le frequenze e la carta stampata.
Iniziò tutto il 27 gennaio, quando il presidente del Consiglio affermò in tv l’ormai tristemente celebre “siamo prontissimi”. A questa più che avventata affermazione seguì un vero e proprio caos informativo (oltre che politico), in corso tutt’ora con svariate sfumature, per cercare di tenere testa ad un virus che purtroppo non ne voleva sapere di frenarsi.
Dalle prime dichiarazioni che cercavano di minimizzare la questione riducendola ad un problema di razzismo anticinese si passò ad una drammatizzazione collettiva, poi una frettolosa retromarcia con aperitivi a Milano e, infine, la stagione delle conferenze di Conte in prime time e a reti unificate (eccezion fatta per l’incredibile apparizione del premier alle 2.20 di notte per ordinare la zona rossa sulla Lombardia e su alcune province limitrofe).
In tutto questo si è assistito ad un vero e proprio collasso dell’informazione, con tg e giornali ormai incapaci di descrivere la situazione reale con distacco e consapevolezza.
Possibile che quasi nessuno abbia denunciato la disastrosa strategia comunicativa di Palazzo Chigi? Tv e giornali come hanno fatto a non accorgersi di alcune decisioni che non facevano altro che aumentare la paura nei cittadini? La scena allucinante dell’inseguimento in elicottero in diretta di un uomo che prendeva il sole in spiaggia, i bollettini quotidiani del capo della protezione civile Borrelli e le sedici (!) apparizioni televisive di Conte in un solo fine settimana sono alcuni esempi della quantità di errori commessi dal punto di vista dell’informazione corretta per gli spettatori.
Come è possibile intuire, quindi, da un certo punto in avanti, i mass media non hanno fatto altro che allinearsi, dando vita di fatto alla “televisione unica del virus” o al “giornale unico del virus”: chi provava a leggere la situazione con spirito critico, chi proponeva soluzioni alternative per l’economia, chi criticava le scelte del governo era immediatamente indicato come un irresponsabile che voleva mettere a rischio la salute degli italiani.
Ad una prima fase durante la quale i cittadini, un po’ per paura, un po’ per insicurezza, assumevano per vera qualsiasi cosa che gli venisse comunicata dalla piatta informazione radiotelevisiva ne seguì un’altra ben più drammatica dal punto di vista socioeconomico. All’inizio della (tardiva) riapertura a maggio e con le prime grandi difficoltà dei lavoratori del privato, i cittadini iniziarono a vedere la differenza tra la realtà vera e quella descritta loro per mesi dalla comunicazione, in particolare da quella governativa. La prova concreta si è avuta quando, ad inizio giugno, Conte, rivolgendosi al fidato portavoce Casalino, si disse incredulo per la contestazione di cui era appena stato bersaglio in Piazza Colonna. Fu la dimostrazione che nessuno aveva capito quello che stava succedendo.
Per tutta l’estate il primo ministro, forte dei dati sulla sua popolarità durante i mesi più duri della crisi sanitaria, aveva continuato ad annunciare soldi a pioggia per tutti, salvo poi essere regolarmente smentito dalla realtà: negozi che non hanno più riaperto, altri ancora pronti alla liquidazione, altri imprenditori che non avevano ancora ricevuto la cassa integrazione che loro stessi anticiparono ai propri dipendenti.
Ultimo episodio in ordine cronologico è la gente che, con risarcimenti tardivi e insufficiente, si è riversata nelle piazze in segno di protesta (guardata con sdegno dai soliti) durante l’autunno appena concluso e in piena seconda ondata. Un altro simbolo di quanto sia stata fallimentare la strategia comunicativa messa in atto dal governo, costretto a scontrarsi, suo malgrado, con il dramma delle imprese.
Si chiude dunque un anno nero dal punto di vista mediatico: prima l’informazione unica che non ammetteva voci fuori dal coro, poi l’informazione che non corrispondeva più alla realtà.
Siamo ora alle porte di una vaccinazione di massa, l’occasione del riscatto per il mondo della comunicazione: affinché la maggior parte degli italiani vi si sottoponga è indispensabile un’informazione corretta e persuasiva da parte di governo e mass media, non certo dell’obbligatorietà che, oltre ad essere incostituzionale, nasconderebbe implicitamente un fallimento della grande campagna di promozione vaccinale che verrà (si spera) organizzata il prima possibile.