Domenica, 14 Luglio 2024 06:47

La Biblioteca del Lavoro: Alessandro Leogrande In evidenza

Scritto da Francesca Dallatana

Razza kapò. Black nightmare

Di Francesca Dallatana Parma, 14 luglio 2024 -

Annullato. Non c’è l’uomo, non c’è il problema.

Lo hanno ucciso. Poi, gli hanno schiacciato la testa sull’asfalto per cancellarlo. La gomma di un camion gli ha staccato il collo, cancellato la faccia, a morte avvenuta. Sulla stessa terra per la quale ha lavorato. Nessuno lo conosceva. Nessuno lo ha cercato. Sconosciuto: hanno scritto così sulla croce di ferro al cimitero, a Orta Nova, Foggia, Puglia.

I vigliacchi non sparano in faccia. Oltraggiano i morti. Cancellano le prove. Non si costituiscono. Negano i fatti.

Incoronata è una bracciante stanca. Tra le dita nodose tiene saldo l’orgoglio del lavoro, la sua corona del rosario. Inganna il tempo prima del sonno eterno. Ogni giorno entra al cimitero. Visita la tomba del marito, emigrato in Germania alla ricerca di un lavoro e ritornato in Puglia. Sul confine del campo santo, la terra sconnessa di un giaciglio solitario. Lei, una bracciante, gli ha fatto costruire una tomba di marmo. Non ha soldi ma rende onore al lavoro oltraggiato dai caporali. Intuisce senza sapere. Sulla lapide scrive: ignoto e aggiunge la data della morte. Restituisce al lavoratore ciò che le è possibile. Con questa azione intima ed estrema, rivendica i valori di una terra che nulla ha da spartire con la violenza inferta al lavoratore inerme.

Non c’è nobiltà senza estremismo. L’eleganza del gesto è coraggiosa. Rivoluzionaria.

Dà il via alla ricerca dell’identità di quel corpo coperto di terra di Puglia, calpestato nella Capitanata (distretto storico-geografico corrispondente alla parte settentrionale della Puglia, ndr). Dove si consuma la ferocia dello sfruttamento in agricoltura, dopo fraudolente operazioni di attrazione e ingaggio della forza lavoro.

E’ polacco, il ragazzo. Ora qualcuno lo ricorda. Molti lo conoscevano. Ha lavorato come bracciante nelle squadre di schiavi provenienti dal nord Europa. Forse ha alzato la voce e ha chiesto di essere trattato come essere umano.

Non come attrezzo da lavoro, usa e getta.

E’ l’incipit del flusso narrativo condotto da Alessandro Leogrande, intitolato “Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud.”, libro edito da Feltrinelli nel 2016 e ripubblicato nel 2019.

L’autore è un intellettuale militante di origini pugliesi ed è scomparso, molto giovane, a Roma nel 2017.

Penna raffinata capace di tagliare come una lama oppure di accarezzare delicatamente i personaggi ai quali è dedicato il libro. La sua scrittura è di rara potenzialità empatica. Sono gli schiavi del terzo millennio. I deportati nei campi di lavoro, ai quali ci si avvicina per necessità e dai quali difficilmente si fugge. Niente di nuovo.

Una storia lunga tutta la Storia: il genere umano contro se stesso.

I caporali contro gli uomini da lavoro. Gli uomini da lavoro che diventano schiavi.

Il libro sferra un pugno in faccia. E’ il racconto a presa diretta di una ferita profonda che non rimargina.

 

Arbeit macht nicht frei

A parole eravamo liberi di andare via dal casolare, ma di fatto c’era un’aria strana. Capivamo benissimo che le minacce verbali si sarebbero trasformate in violenza fisica.  Sembrava di essere finiti in un lager nazista, di essere tornati al tempo della guerra. Il nostro casolare sembrava essere sopravvissuto a un bombardamento, era sporco e pieno di topi morti. Avevo paura, tanta paura. La sera andavo a dormire stringendo tra le mani una falce che avevo trovato nei campi.”

Molti dei fatti di sfruttamento riportati dalla tenace penna di Alessandro Leogrande sono datati 2005 e 2006: anni dieci del terzo millennio. Dalla Polonia si arriva con un pullmino. Un viaggio dal tragitto strano e lungo. Devono salire sul mezzo i lavoratori diretti all’infermo dei campi del Sud Italia. Che sia un inferno ancora non lo sanno.  Sono disoccupati, studenti che devono pagare gli studi, persone espulse dalle fabbriche dopo il crollo dell’Urss. Soprattutto uomini, sotto i quaranta anni. Età media bassa. Gli studenti scambiano poche parole con gli operai. Le mani levigate di chi non conosce asperità e tagli del lavoro rappresentano una barriera tra i lavoratori e gli altri, da sempre e sotto ogni cielo.  Si risponde a un annuncio, pubblicato sul giornale. Per un lavoro temporaneo al sud Italia, per il quale è possibile avere un alloggio. Si telefona e si paga: duecento euro, per cominciare. Una donna dai capelli biondi acconciati a coda di cavallo, la pelle bianca e gli occhi fermi incassa e organizza. Le richieste di denaro continuano una volta raggiunto il tugurio per il pernottamento, case in rovina dove si dorme tutti insieme, senza acqua corrente, freddo in inverno e caldo opprimente in estate. Si paga per un tetto sulla testa e un letto fatiscente. Si paga se non si va al lavoro. Si paga se ci si ammala. Il posto di lavoro è una galera. Proprietari terrieri italiani prendono contatto con i caporali e chiedono e implorano per avere forza lavoro. Una merce a basso costo rispetto al costo del lavoro legale italiano: sei euro a cassone di pomodori; a volte tre. La paura impedisce la liberazione dal carcere. La violenza è praticata: chiavi inglesi sulla testa, minaccia di morte, botte. Alle donne che non producono come e quanto devono è riservato lo stupro come mezzo per annullare resistenze e per superare indisposizioni fisiche. Dallo sfruttamento non ci si libera.

Le parole del riscatto

Le parole sono il mezzo del riscatto. Il racconto è ribellione. Tre studenti polacchi, fra i primi.  Al telefono con la famiglia. Dalla Polonia lanciano l’allarme all’ambasciata, al console. Le forze dell’ordine intervengono al Paradise, la vecchia trattoria trasformata in casolare di accoglienza dalle caratteristiche fatiscenti. Ma il luogo condiziona la disponibilità a parlare, quando arrivano il console e i carabinieri. Un giovane studente sfodera coraggio e dice che fra i muri disastrati e controllati del Paradise nessuno avrà il coraggio di parlare. Perché hanno visto qualcuno delle forze dell’ordine in borghese accettare buste di pomodori dai caporali. Perché quando lavorano per alcuni caporali, con quelli polacchi, non ci sono controlli e non ci sono blocchi. Il console propone il trasferimento dei lavoratori in altro luogo, presso la sede del consolato. Lo seguono in pochi, ma sono quelli che troveranno la forza della denuncia. Sono quelli che, in nome dei ricordi a tinte pastello degli affetti e del Paese di origine, crollano in un pianto liberatore. Dal quale scivolano fuori fatti, nomi, date, l’esiguità delle somme di denaro, la ferocia dei kapò, le botte. L’incubo nero.

Faccia da caporale

Una penna fine è come la fotografia: non mente. Alessandro Leogrande sfodera una penna degna di una immagine fotografica ad alta definizione, nel capitolo dedicato al processo contro i caporali. Mette al centro dell’attenzione giudiziaria il sistema corrotto e mafioso del caporalato, qualche anno dopo i fatti insanguinati di dolore. E’ il primo processo penale contro una associazione transnazionale di caporali. E’ il 2007.  Fra di loro si definiscono “kapò”. Loro sono i kapò di ultima generazione. Hanno imparato il mestiere di mercante di uomini e di carceriere. Lo esercitano come se fosse una missione per una istituzione religiosa e totale. I soldi annebbiano il cervello. L’aspetto fisico, la postura, l’atteggiamento, l’abbigliamento e la sicurezza nonostante le sbarre della gabbia del tribunale e la catena che li tiene insieme: elementi che definiscono il ruolo e li differenziano in modo netto dai lavoratori schiavi. I due polacchi sono tonici, agili, vestiti con cura: uno dei due sul punto di scattare e di esplodere, per la prestanza fisica; il secondo è algido, capello corto e chiaro, occhiali rotondi cerchiati d’argento e occhi gelidi e appuntiti come l’odio, abiti freschi e curati. Il terzo, il capo dei kapò, è algerino: alto oltre un metro e novanta, calzoni e camicia tono su tono, le mani salde sulle sbarre, lo sguardo sfidante e fisso, capelli ancora più neri per il gel che tiene in piega la chioma raccolta dietro le spalle. Poi, l’ultimo anello della catena. E’ quello che più somiglia alla massa umana di stracci al lavoro. Ha paura, rischia grosso. Non ha ancora fatto il salto ai piani alti del distacco emotivo dell’anaffettività. Suda, ha la camicia madida di paura. Gli tremano le gambe e la voce. D’un tratto si è frantumata la maschera del traghettatore di corpi dal Paradise fino ai campi di lavoro.

Eredità emotiva

Alessandro Leogrande parla anche di se stesso e del suo cordone emotivo con la Puglia. Storia, genetica, pensiero. Alterna ai fatti riportati e datati 2000-2006 un affresco sociale dei primi decenni del Novecento inquieto. Le lotte, il riscatto, il genere umano che mai sembra cambiare. I derelitti parcheggiati fuori dal confine dell’immaginario collettivo. Gli stracci ai margini cambiano, a seconda dei travasi della Storia. Le conseguenze della decolonizzazione, il crollo del muro di Berlino, la frantumazione dell’Unione sovietica; e ancora, a libro ampiamente pubblicato: Afghanistan, 2021; Ucraina, 2022 e tutti i conflitti in corso sulla faccia della terra sedate dal silenzio della memoria.

La razza kapò si trasforma. Affina la tecnica. Corre veloce. Il male è leggero, sornione. Dissimula.

La sentenza penale di condanna ai kapò arriva dalle facce dimesse degli schiavi. La legge arriva dopo.

La vita offesa ringhia. Dalla lapide del lavoratore senza testa e senza nome. Non c’è l’uomo, resta il problema.

Alessandro Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Feltrinelli, 2019

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