Il mercato ha un unico obiettivo: il condizionamento dei consumatori "dalla culla alla tomba”. Ma quali sono le tecniche che mette in campo? Come riuscire in questo scopo?
Le pubblicità fanno leva sul narcisismo inconscio di un individuo, sul suo desiderio di sentirsi unico, potente, “speciale”.
Usano parole ammiccanti, allusive, rassicuranti. Sfruttano la tecnica della ripetizione ossessiva che induce il pubblico ad assorbire il contenuto di uno spot.
Inducono i consumatori ad associare un determinato prodotto a una sensazione di benessere, di felicità, di completezza. L’acquisto diviene uno strumento per acquisire prestigio o un determinato status sociale: “Se possiedi una macchina potente, sei un uomo potente”, è il messaggio che la pubblicità vuole instillare nella mente del consumatore. “Se acquisti un gioiello di valore, anche tu vali molto.”
Per comprendere il fenomeno del consumismo è necessario analizzare i bisogni che tenta (inutilmente) di soddisfare e i presupposti sociali che lo alimentano.
L’acquisto genera nel consumatore una sensazione di euforia. A livello puramente fisiologico si assiste nel cervello a un aumento di dopamina, il neurotrasmettitore che modula il meccanismo della ricompensa e del piacere.
E se non c’è nulla di straordinario in questo primitivo meccanismo (l’uomo, in fondo, tende a realizzare il principio del piacere) il piacere che se ne ricava, è di breve durata.
Ciò torna utile al capitalismo che ha bisogno di una massa di persone disposte a indebitarsi per compare oggetti di cui non hanno un reale bisogno.
È un’economia che necessita della reiterazione continua del ciclo desiderio-acquisto-appagamento (momentaneo) del desiderio, un ciclo infinito, dove il consumatore s’illude di poter soddisfare i propri bisogni interiori con l’acquisto compulsivo di oggetti.
Un mercato che funziona seguendo queste regole non è interessato né all’utile, né al necessario, né alla felicità (non sia mai) del suo consumatore, ma a tutto ciò che è in grado di stuzzicare la nostra fantasia, di generare in noi un desiderio persistente.
“Un consumatore soddisfatto sarebbe una catastrofe per la società dei consumi,” sostiene Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco, che più di tutti seppe prevedere gli effetti disastrosi del consumismo sull’assetto sociale.
“I poveri,” continua Bauman, “si trovano in una situazione in cui sono costretti a spendere lo scarso denaro o le poche risorse di cui dispongono per procurarsi oggetti privi di senso, al fine di allontanare da sé una totale umiliazione sociale e la prospettiva di essere molestati e derisi”.
L’acquisto non si qualifica soltanto come possesso dell’oggetto desiderato, ma è un lasciapassare, la conditio sine qua non, senza la quale non si può ottenere il riconoscimento del proprio status sociale.
L’oggetto è desiderato per il suo valore simbolico. È l’oggetto simbolo che determina la nostra identità e che conferma il nostro ruolo nella società. Il non adeguarsi alle mode del momento porta l’individuo all’esclusione sociale, a essere emarginato.
Se la felicità è un’illusione a buon mercato, non lo è la ricerca di uno scopo, di un significato da dare alla propria vita, ma per avere una vita ricca e soddisfacente bisogna costruirlo da sé il significato.
Una vita incentrata unicamente sul soddisfacimento dei propri desideri è destinata a essere sterile e vuota.
Ma che possibilità ci sono per l’uomo se la massima aspirazione a cui tende per sentire realizzato è avere un portafoglio illimitato dal quale attingere per poter soddisfare i suoi capricci?