"A questa domanda da ragazzi i miei amici davano sempre la stessa risposta: la fessa. Io invece rispondevo: 'l’odore delle case dei vecchi'. La domanda era: 'che cosa ti piace di più veramente nella vita?'. Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella". Con queste parole inizia la fatidica pellicola che, dieci anni fa, valse l’ambita statuetta al regista napoletano. Beatitudine e dannazione di un premio che ha inevitabilmente scisso la sua carriera artistica in due periodi distinti: Pre e Post La Grande Bellezza.
Partiamo dall’oggi. Partiamo dall’afrodisiaca Parthenope, l’ultima fatica cinematografica firmata Sorrentino. Un film che si presenta come un mosaico delle sue ossessioni visive e narrative, e su cui, sin dalla sua presentazione al Festival di Cannes, si è sviluppato un ampio dibattito: da chi inneggia a un nuovo capolavoro, a chi lo accusa di autocompiacimento. Fino ai più cinici, che arrivano a definire Parthenope semplicemente uno spot pubblicitario made in Saint Laurent.
Nonostante questa natura divisiva, effetto collaterale di ogni grande intellettuale, poniamoci un quesito: il cinema sorrentiniano può ancora dirsi rivoluzionario? Difatti, non si può ignorare quanto il linguaggio poetico del regista sia mutato rispetto alle prime opere. Il cinema del "giovane Paolo" era caratterizzato da uno sguardo più crudo, più diretto, capace di colpire con storie che fondevano dramma e grottesco. In quelle prime opere emergeva un regista affamato di raccontare, di sperimentare, di sporcarsi le mani con storie universali ma filtrate da una capacità artistica unica. Pensiamo ad alcuni dei suoi capolavori come L’uomo in più (2001), Le conseguenze dell’amore (2004), Il Divo (2008): opere in cui la ricerca estetica era sì presente, ma subordinata alla costruzione di personaggi pregni di significato e verità, archetipi di una realtà scadente.
Ma se andiamo per opposizioni, è difficile non notare come, dopo La Grande Bellezza, i film successivi sembrino essere caratterizzati da un unico inconfondibile stile: Youth (2015), Loro (2018), fino al penultimo È stata la mano di Dio (2021). Immancabili successi, ma che, in prospettiva, sembrano avvicinarsi troppo a una forma di déjà vu, uno schema consolidato, opere che faticano a sorprendere in quanto derivanti da una stessa matrice. Amore, amicizia, paura, morte: temi da sempre utilizzati dal regista, che, seppur profondi, sembrano essere trattati con le stesse intenzioni, che, pur restando potenti, si reiterano all’infinito.
Giusto inoltre riflettere, sul passaggio da un cinema indipendente a quelle delle grandi produzioni internazionali. Oggi i film di Sorrentino possono effettivamente dirsi veri e propri “Blockbuster” per gli standard italiani, basti pensare al budget di Parthenope che ha toccato circa i 32,3 milioni di euro. Cifre che inevitabilmente sviluppano contraddizioni: da un lato, il consolidamento di una firma unica nel suo genere; dall’altro, il rischio che questa affermazione finisca per annullarsi in una sorta di modello predefinito. Un marchio di fabbrica, una firma esclusiva che produce sempre gli stessi capi.
Con questa breve analisi, non si intende certo sminuire il lavoro di un autore che, piaccia o meno, è indiscutibilmente tra i più influenti del cinema contemporaneo. La sua abilità nel raccontare l'indicibile attraverso silenzi, immagini e sguardi resta intatta e innegabile. Tuttavia, resta da capire quanto la poetica dell'“Apparato umano” continuerà a influenzare le sue opere.
Forse, alla fine, un ritorno a Sorrent(in)o non è nient’altro che un ritorno a sé stesso: un rifugio sicuro che, però, rischia di trasformarsi in una trappola autodistruttiva. Una scelta tra le scelte: rimanere il Re della terrazza romana o sorprenderci con una mossa audace ma necessaria, in pieno stile Diego Armando Maradona.