In altri termini, il costituzionalismo è non solo coevo, ma anche omologo alla modernità ed ai suoi principi, in particolare al principio di immanenza con conseguente «espulsione» di qualunque ordine naturale e di qualunque trascendenza.
Questo significa, allora, che, mediante la Costituzione, le fondamenta dell'ordinamento giuridico-politico si immanentizzano, positivizzandosi, e si positivizzano, immanentizzandosi (così TURCO). In questo modo, la «determinazione costituzionale» trova unicamente in se medesima la propria connotazione valoriale-assiologica.
Da questa premessa è facile intuire che la legge, partendo dallo stesso Testo fondamentale, risulta un «opus voluntatis» piuttosto che «ordinatio rationis».
Il legiferare, dunque, è un «facere» e non un «legere» l'ordine dell'essere.
La assunzione di questa prospettiva implica che l'indeterminato, il «caos», risulti anteriore al «patto costituzionale» e alla Costituzione. L'ordinamento si erge, in questo modo, sul nulla dell'originaria indeterminatezza di principi e norme. Tuttavia, posto il volere costituente ed il suo esito costituzionale, l'indeterminato diviene anche una permanente eventualità da fronteggiare, in quanto la Costituzione positivistica ha sempre bisogno di interpretazione, di funzionalizzazione «dinamizzante» etc. Mutatis mutandis, le tanto decantate «Costituzioni» si fondano su loro stesse, o meglio sull'atto che, ponendole, pone anche sé stesso.
Il finito del proprio porsi pretende di fondare così il finito del proprio darsi in quanto la statuizione positiva si deve necessariamente identificare, per quanto sopra detto, con la sua inevitabile e continua evoluzione/interpretazione. In questo modo, però, si cade in una evidente contraddizione, dal momento che il finito viene assolutizzato ed infinitizzato. Ora, come è possibile la finitizzazione dell'infinito?
Nessuno che si ponga il problema della Verità quale questione fondativa imprescindibile della legge?