Nel "Digesto", una delle parti della compilazione giustinianea, è riportato l'aforisma del giurista Ermogeniano (III/IV secolo d.C.) secondo il quale "hominum causa omne ius constitutum est" (cfr. Dg, 1,5,2). E questo non solo perché l'uomo è soggetto di diritto, ma anche perché solo l'uomo ha necessità del diritto per vivere all'interno di una comunità politica organizzata. Come mai, allora, si chiede giustamente il prof. Danilo Castellano, viene utilizzato nella forma plurale l'aggettivo qualificativo "umani" per riferirsi ai diritti. Esistono, forse, dei "diritti disumani"? A partire dalla nascita del cosiddetto "Stato di diritto", il diritto è divenuto il risultato della volontà/potere di chi, contingentemente, detiene il potere il quale se ne serve per perseguire quelle finalità variabili di volta in volta a seconda delle continue aggregazioni del pluralismo.
Ora, è sufficiente il moderno consenso o meglio la accettazione, spesso consolidata nel tempo di una certa situazione giuridica, per convertire la natura "disumana" di un diritto (l'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla legge ordinaria dello Stato n. 194/1978, considerata un diritto soggettivo quando di tratta di un vero e proprio omicidio di chi è già essere) nella sua "umanità"?
Se si riconosce alla persona umana uno "statuto ontologico" proprio (se così non fosse l'uomo potrebbe essere altro da sé, ma questo è smentito dall'evidenza), la sua prima esigenza non è un diritto, bensì un obbligo: la realizzazione della sua "natura" (intesa in senso filosofico e non come sinonimo di naturalismo).
Da qui sorge il primo diritto: quello di agire nella Verità e per la Verità e di non sottomettere ad essa le proprie velleità.