Di Giulia Bertotto Roma, 25 novembre 2023 - Andrea Zhok, professore di Filosofia Morale presso l’Università degli Studi di Milano, collabora con numerose testate giornalistiche e riviste. Tra le sue opere ricordiamo le più recenti: “Critica della Ragione Liberale” 2020, “Oltre Destra e Sinistra: la questione della natura umana”, quest’ultima opera è stata data alle stampe dalla coraggiosa casa editrice Il Cerchio, che ha pubblicato anche “La Profana Inquisizione e il regno dell’Anomia. Sul senso storico del Politicamente Corretto e della Cultura Woke” (2023).
In quest’ultimo, agile ma densissimo saggio, dotato di straordinaria forza critica, spiega come il potere della censura, una volta detenuto dalle istituzioni ecclesiastiche, sia oggi appannaggio di quel movimento liberal soprattutto americano, che condiziona anche il nostro sistema categoriale e valoriale. Questo “atteggiamento di ispezione poliziesca del linguaggio” spiega, nasce in ambito accademico per non offendere alcuna minoranza oppressa, e si fonda su un importante scollamento intellettuale dal registro e dal linguaggio popolare. Ma si badi bene -non è solo una questione formale- perché le parole sono ontologicamente caricate e perché ai trasgressori del comandamento politicamente corretto viene resa inagibile la partecipazione al dibattito pubblico su temi fondanti come “l’educazione, la famiglia, la struttura della società, la procreazione, l’affettiva, la natura e la storia umane”. Così ben presto la difesa delle categorie lese diventa strumento di diffamazione contro chiunque intenda argomentare il dogma della vittima. Nella società della Profana Inquisizione “Non esiste propriamente alcun valore, ma un unico disvalore: la violazione dello spazio altrui”. Il punto non è la morale individuale (l’unica valida per i liberali), ma quella che troviamo nell’etimologia del termine mos: Zhok denuncia che però senza valori condivisi c’è la disgregazione cognitiva, emotiva e morale della società. Senza morale intesa nell’accezione che l’autore recupera, ossia comportamento e costume collettivo, non ci riconosciamo più come specie umana: questa è la vera estinzione che ci minaccia con il neoliberalismo woke.
L’INTERVISTA
Professor Zhok, nelle prime pagine del suo ultimo libro spiega che movimenti come l’antipsichiatria o il primo femminismo avevano eccome ragioni per battersi contro le discriminazioni e gli stereotipi (termine caro alla Profana Inquisizione) ma in una seconda fase della loro lotta sono degenerati e le loro rivendicazioni sono diventate tentativi di demolire le differenze biologiche che lei chiama “fluidificazione categoriale”. A chi giova insomma questa opera di demolizione etico-linguistica?
Come recita un vecchio adagio, di buone intenzioni sono lastricate le strade per l’inferno. Spesso movimenti che hanno avuto esiti pessimi avevano origini nobili, giustificate, assai ben intenzionate. Il caso del cosiddetto movimento antipsichiatrico degli anni ’60 così come quello del femminismo sono casi del genere. In entrambi questi casi il processo degenerativo è avvenuto con l’inavvertita alleanza che si instaurò ad un certo punto con il neoliberalismo. Quest’alleanza prese le mosse dalla sconfitta storica delle istanze del ’68. Di quelle molteplici istanze, spesso altamente idealistiche, rimasero in vita solo gli aspetti conciliabili con il rinnovato influsso del liberalismo – che era rimasto in secondo piano sostanzialmente dal 1914.
Il nuovo liberalismo degli anni ’70 scinde nel lascito dei movimenti del ’68 la componente sociale dalla componente libertaria. La dimensione sociale, comunitaria e cooperativa, scompare del tutto, mentre la componente libertaria viene imbracciata, dandone la tipica interpretazione liberale, dove libertà è la pura e semplice opposizione ad ogni vincolo e limite (la “libertà negativa”). In questo modo istanze che erano nate per affrontare problemi precisi e concreti divennero teorie generali astratte: l’antipsichiatria si riversò in una tendenza a distruggere il paradigma stesso della normalità mentale, mentre il femminismo si trasformò in una forma di perenne dichiarazione di guerra nei confronti della famiglia e dell’altro sesso.
Il paradigma woke è un ginepraio di contraddizioni: normalizzazione delle patologie e patologizzazione della famiglia, ostentata libertà sessuale eppure esasperata politicizzazione della sessualità, rispetto radicale per la natura mentre l’idea di natura umana viene liquidata. È d’accordo?
Il paradigma woke è contraddittorio ma non soffre per le sue contraddizioni perché il suo punto di partenza è già fondamentalmente irrazionalista. Alle sue origini questo paradigma prende le mosse soprattutto da una lettura delle istanze politiche del postmodernismo francese, che contesta alla base l’idea stessa di razionalità umana, vista come una gabbia categoriale. Il postmodernismo si è espresso in forme filosoficamente discutibili ma dignitose, come l’antiessenzialismo, la riconduzione del naturale al culturale, il soggettivismo, tuttavia una volta valicato l’ambito dell’accademia quelle posizioni si trasformarono molto rapidamente in un generico irrazionalismo, che si immaginava “rivoluzionario”, perché “abbatteva limiti”, mentre era solo la mosca cocchiera delle più deteriori espressioni della liquefazione capitalistica.
Lei scrive a proposito dell’identità di genere “ma davvero una società armonica dev’essere una società che sopprime le differenze identitarie interne, in quanto possibili latrici di sopraffazione e conflitto?” e usa una metafora molto concreta spiegando che sarebbe come estirpare i denti a tutti perché potenzialmente qualcuno potrebbe mordere. L’illusione di controllare il male reprimendo le differenze (tra sano e patologico, maschile e femminile, tra etnie). Quanto c’è di ingegnoso e volto al profitto e quanto di inconscio in questo meccanismo di difesa dalla violenza?
Questo meccanismo di difesa è estremamente primitivo, dunque non direi che è ingegnoso, ma proprio la sua elementarità lo rende potente e capace di applicarsi in direzioni molto diverse. In ogni conflitto c’è sempre diversità tra enti in conflitto, qualunque sia il conflitto. La risposta primitiva, infantile, più immediata è quella di pensare di abolire il conflitto abolendo la diversità degli enti in conflitto. Per dire, se c’è conflitto tra ricchi e poveri la risposta primitiva può essere: equalizziamo forzosamente tutti i redditi e tutti gli averi e il conflitto sarà risolto. Invero questa idea è stata a più riprese ritenuta un’idea attraente nella sua semplicità, ed è solo quando si visto come questo si esprimeva concretamente che si è compreso come essa fosse socialmente disfunzionale. La stessa primitività si vede nel caso delle differenze sessuali, che esistono come un portato naturale e che hanno superato la prova dell’evoluzione perché consentono una fertile complementarità. Ma ovviamente la complementarità che poteva funzionare in una società di cacciatori e raccoglitori non è la stessa complementarità che poteva funzionare in una società agricola, che non è la stessa che può funzionare in una società industriale moderna. Le soluzioni sociali non sono già bell’e pronte e trovarle nel corso della storia umana è sempre un’impresa che costa fatica e richiede ingegno. Purtroppo la modernità neoliberale ha perduto la capacità di affrontare la complessità sociale e alimenta soluzioni semplificatorie, che cercano non una nuova complementarità ma una mera cancellazione della diversità.
La Profana Inquisizione ha i suoi eretici e i suoi santi. Lei spiega come la vittimizzazione di un gruppo sia funzionale a legittimare il tribunale del politicamente corretto a lanciare anatemi laici e condanne mediatiche. Vittimizzare le donne in maniera automatica non le rende paradossalmente meno emancipate, già sopraffatte, deresponsabilizzate, deprivate della loro possibilità di affermazione sociale e professionale?
In effetti la tendenza alla vittimizzazione del femminile è spesso avversata da molte donne che si sentono, giustamente, sminuite da questo meccanismo. L’idea di “quote riservate” (“quote rosa”) ad esempio lascia spesso un retrogusto sgradevole, come se si trattasse di aiutare qualcuno che altrimenti non ce la farebbe con le proprie forze. Ma anche qui il mondo ha una complessità maggiore di ogni risposta semplicistica. In alcuni casi, come relativamente all’occupabilità nel settore privato (e di conseguenza ai livelli salariali), le donne hanno spesso davvero un potenziale svantaggio, legato al fatto di essere viste “a rischio gravidanza” e perciò come un possibile onere per l’impresa. Questo è un fatto oggettivo e un problema reale, che uno stato degno di questo nome dovrebbe affrontare nel merito. Il problema viene invece affrontato in modo completamente sbagliato se lo si imposta ideologicamente, moralisticamente, come se fossimo davanti a “discriminazioni maschiliste” o simili. Queste interpretazioni da un lato aprono uno spazio di vittimizzazione, che per alcuni può essere psicologicamente confortante, ma dall’altro lascia tutti i problemi intoccati, suscitando semplicemente risentimento e alimentando il conflitto tra i sessi.
Alla luce di quanto affermato finora possiamo parlare di un atroce caso di cronaca, l’assassinio di Giulia Cecchettin, che come sempre ha polarizzato il discorso pubblico italiano (con strumentalizzazioni oscene) tra chi attribuisce la causa al patriarcato e chi alla malattia mentale. Lei si occupa di entrambi i versanti nel libro, psicopatologia dell’individuo e dinamiche collettive (Jung parlava infatti di inconscio collettivo). E se le due cose avessero un campo di interazione continua? Secondo lei i diffusi femminicidi sono causati da retaggi di patriarcato o dalla perdita di valori?
Premetto che io non parlo mai di casi particolari, che richiedono per essere trattati un’analisi particolareggiata delle persone coinvolte, delle circostanze, ecc. Va da sé che ogni atto di violenza e a maggior ragione ogni omicidio va condannato con la massima forza. Ma non è qui che si giocano mai i dissensi. Quello che penso è che porre la questione “femminicidi” come una tematica emergenziale sia integralmente un costrutto mediatico, un costrutto che si inquadra nelle tendenze culturalmente degenerative che esamino nel libro. Questa convinzione per essere argomentata adeguatamente richiederebbe una lunga discussione. Mi limito qui ad alcune semplici considerazioni.
L’analisi di queste vicende tende sistematicamente ad obliterare dati primari conclamati, per rivestire il tutto con grandi teorizzazioni moraleggianti e confuse (le “colpe del patriarcato”). Questo non solo non aiuta a risolvere nulla, ma provoca danni sociali, incrementando il sospetto reciproco e la guerra tra i sessi.
Il primo fatto da ricordare è così banale che è quasi imbarazzante ricordarlo. Che ci sia maggiore ricorso dei maschi rispetto alle donne alla violenza fisica non è qualcosa che richieda complesse spiegazioni culturali. Basta avere contezza del funzionamento di alcuni noti fattori fisiologici. Che i maschi abbiano mediamente una maggiore propensione a trasformare la rabbia in violenza fisica e che abbiano mediamente una maggiore forza fisica sono ovvietà note da millenni, e le cui basi organiche (ormonali) ed evolutive oggi conosciamo benissimo. Qui la cultura non c’entra nulla, figuriamoci una cultura inesistente nell’occidente industriale come il “patriarcato”. Se scopriamo che ci sono più atti violenti o omicidi perpetrati da maschi che da femmine, questo è un dato ovvio, che non richiede alcuna spiegazione speciale. La disposizione all’aggressività è stata, e spesso è ancora, utile alla sopravvivenza e dunque si è sviluppata in maggior misura in uno dei sessi – quello che non doveva portare a termine gravidanze. Sic est.
Quando invece ci può essere un problema da spiegare sul piano socioculturale?
Ad esempio, quando il numero degli omicidi aumenta nel tempo, oppure quando gli omicidi si concentrano in modo innaturale solo su alcuni obiettivi. Nel caso dei cosiddetti “femminicidi” – parlo della realtà italiana – non c’è alcun aumento del fenomeno nel tempo (anzi c’è una progressiva diminuzione), e le donne, che sono metà della popolazione, rappresentano circa un terzo delle vittime di omicidio volontario (dunque non sono un bersaglio preferenziale). Anticipo possibili obiezioni notando che non è detto che le donne di per sé debbano rappresentare una minoranza tra le vittime di omicidio. Spulciando i dati Eurostat possiamo ad esempio notare come a Malta le donne siano l’80% delle vittime di omicidio volontario, in Lettonia il 62%, in Norvegia il 57%, in Svizzera il 56%, ecc. Di fronte a dati dove un sesso rappresenta più del 50% dei casi che ci si potrebbe attendere, solo qui possiamo legittimamente aprire una domanda intorno alle eventuali ragioni sociali.
Una parola sul cosiddetto “patriarcato”. È francamente insopportabile il marasma mentale prodotto dall’uso di questa parola. Nella misura in cui si può parlare di società patriarcali, si tratta di modelli sociali legati all’agricoltura o alla pastorizia, di tipo preindustriale, dove comunità costituite da grandi famiglie estese esercitavano gran parte delle funzioni di giudizio oggi fatte dai tribunali. In questo contesto il vertice dell’autorità afferiva al maschio più anziano (patriarca). Questo modello sociale, piaccia o dispiaccia, comunque oggi in occidente è scomparso integralmente. Le famiglie sono nucleari, fragili, senza autorità e i padri sono figure indebolite. Il termine “patriarcato” viene usato come una parolina magica per darsi un tono, ma di fatto, se e quando si ha qualcosa in mente, fa riferimento a forme di banale maschilismo. Ma parlare di maschilismo o di patriarcato sono due oggetti completamente diversi, e le strategie per porvi rimedio sono diverse, direi opposte. Se pensiamo che il problema sia il patriarcato, ad esempio, vedremo nel ruolo educativo e affettivo della famiglia un gravame di cui liberarci; se pensiamo che il problema sia il maschilismo (che trasuda ad esempio dalla subcultura trap), possiamo più facilmente vedere nel ruolo educativo, affettivo e normativo delle famiglie, parte della soluzione.
Che nella società odierna ci siano nicchie di maschilismo è sicuro, esattamente come ci sono nicchie di quello che chiamerei “suprematismo femminista”, che è il suo opposto simmetrico. La simmetria che voglio evocare non è una mera provocazione. Il maschilismo è la presunzione di una superiorità (morale? mentale?) del maschio rispetto alla femmina. Quello che, per mancanza di una parola consolidata ho chiamato “suprematismo femminista” è la presunzione di una superiorità (morale? mentale?) della femmina rispetto al maschio. Che nella società odierna esistano in qualche misura entrambe queste posizioni è sicuro. Che siano entrambe disperanti scemenze è invece solo la mia personale opinione.