Come tutti sappiamo, il sionismo è l’ideologia che sostiene il presunto diritto del cosiddetto “popolo ebraico” a disporre di un suo Stato in una “terra d’Israele” che agl’inizi del Novecento fu individuata in Palestina, la quale però all’epoca apparteneva all’Impero Ottomano.
Già nella seconda metà del XIX secolo erano state avviate iniziative finalizzate a creare insediamenti ebraici in Palestina. Nel 1861 Sir Moses Haim Montefiore, che a Londra aveva accumulato un’enorme fortuna come banchiere, sostenne l’immigrazione ebraica in Palestina finanziando la costruzione di un sobborgo ebraico a Gerusalemme. A partire dal 1882 il faccendiere Edmond James de Rothschild, membro della potente famiglia ebraica, divenne uno dei principali finanziatori del movimento sionista e acquistò un sito in Palestina. Sempre dal 1882 anche un altro finanziere ebreo, Maurice de Hirsch, investì cospicue somme di denaro nel progetto di colonizzazione della Palestina.
Alcuni anni dopo, nel 1896, il giornalista ebreo Theodor Herzl pubblicò il libro Der Judenstaat (“Lo Stato degli ebrei”), che venne immediatamente tradotto in varie lingue. Al successo del libro e al dibattito da esso suscitato seguì un anno dopo il primo Congresso sionista mondiale, che si tenne a Basilea e trasformò l’idea sionista in un movimento mondiale permanente. Il programma elaborato a Basilea affermava che “il sionismo si sforza di ottenere per il popolo ebraico un focolare garantito dal diritto pubblico in Palestina”.
Nel corso della prima guerra mondiale, il 2 novembre 1917 il ministro degli esteri inglese Arthur Balfour indirizzava al banchiere Lord Lionel Rothschild, principale rappresentante della comunità ebraica inglese e referente del movimento sionista mondiale, una lettera (la famosa Dichiarazione Balfour) nella quale si affermava che il governo di Sua Maestà britannica guardava con favore alla creazione di un “focolare nazionale” (national home) per il popolo ebraico in Palestina e si sarebbe adoperato per il conseguimento di tale scopo. Ovviamente era necessario che l’Impero ottomano venisse sconfitto e fatto a pezzi dai vincitori del conflitto ancora in corso.
Dopo la grande guerra l’immigrazione ebraica in Palestina si intensificò, sostenuta da organizzazioni paramilitari terroristiche quali la Haganah e l’Irgun Zwai Leumi, alle quali si sarebbero poi aggiunti altri gruppi criminali, fra cui la famigerata Banda Stern.
Il sostegno al progetto sionista e la pulizia etnica ai danni dei Palestinesi raggiunsero l’acme dopo la seconda guerra mondiale, finché nel 1948, allo scadere del mandato britannico istituito in seguito alla sconfitta dell’Impero ottomano nella grande guerra, venne proclamata la nascita di un regime politico-militare di occupazione della Palestina denominato “Stato d’Israele”.
Per il popolo palestinese fu la Nakba, la “Catastrofe”, ossia l’esodo forzato di oltre 700.000 individui, musulmani e cristiani.
Espulsi dalla loro patria durante e dopo la guerra arabo-israeliana che nel 1948 seguì la fondazione dell’entità sionista, gli esuli palestinesi furono privati del diritto di tornare nelle proprie terre.
Al di là delle versioni apologetiche, dunque, il sionismo nasce nel filone dei nazionalismi d’origine ottocentesca come progetto immigrazionista militare e terroristico, un progetto in cui risulta evidente, nonostante la parvenza “laica” del movimento, una forte ispirazione biblica, veterotestamentaria per l’esattezza.
È quello che fa notare, in questo numero di “Eurasia”, il collaboratore Youssef Hindi nell’articolo intitolato Le origini bibliche della strategia israeliana di conquista.
La dimensione biblica del modello di costruzione dello Stato d’Israele, afferma l’autore dell’articolo, è sfuggita agli storici, ingannati dal carattere falsamente secolare del sionismo. L’ispirazione veterotestamentaria dell’espansione territoriale dell’entità sionista risulta invece evidente, prosegue Hindi, se si fa un parallelo tra il resoconto epico del Libro di Giosuè e quello storico della conquista sionista della Palestina. D’altronde Benjamin Netanyahu ama riferirsi proprio a questa parte del testo biblico, così come ama riferirsi, quando parla dell’Iran, al Libro di Ester, che racconta lo sterminio della classe politica persiana, un evento celebrato gioiosamente ogni anno nella festività ebraica di Purim. L’ombra della Bibbia ebraica, insomma, continua a proiettarsi sugli eventi dei nostri giorni.
In un altro articolo, Alessandra Colla osserva come la visione della Palestina quale “terra promessa” da Yahvè al “popolo eletto” d’Israele non sia soltanto un tòpos religioso e ideologico: già introiettata al tempo delle grandi scoperte geografiche, nell’Ottocento l’espressione “terra promessa” divenne la parola d’ordine dell’imperialismo anglosassone, che vedeva nella Palestina una tappa ideale per la conquista dell’India e dei suoi mercati, conquista da realizzare attraverso il sostegno alle istanze ideologiche sioniste.
Stefano Azzali analizza la genesi del sionismo come moderno movimento colonialista, finalizzato a creare uno Stato ebraico sul modello coloniale britannico. “Per la nostra idea sionista, - scrisse infatti Theodor Herzl - il lavoro di Cecil Rhodes non è stato vano. Egli è stato la nostra grande guida (…) La Rodesia è per noi un esempio inestimabile per il futuro sviluppo della Palestina”. Quindi Azzali si sofferma sui tentativi messi vanamente in atto da Theodor Herzl per ottenere dal Sultano ottomano Abdulhamid II la consegna della Palestina ai sionisti; ed infine riporta una lettera in cui il Sultano esiliato illustra i retroscena della sua detronizzazione: “Sono stato costretto – scriveva Abdulhamid – a lasciare il Califfato dell’Islam a causa delle pressioni e delle minacce dei capi del Comitato Unità e Progresso, noti come Giovani Turchi. Costoro hanno incessantemente insistito affinché acconsentissi alla creazione di una patria nazionale per gli ebrei nei Territori Sacri e in Palestina, richiesta che ho rigorosamente rifiutato di accettare e di prendere in considerazione”.
Un altro collaboratore della rivista, Daniele Perra, considera necessario proporre un’analisi retrospettiva concernente gli sviluppi ideologici delle differenti correnti interne al sionismo e il loro approccio a quello che è stato definito come “problema arabo”.
Pur non tralasciando gli aspetti storici e geopolitici, l’articolo di Perra si concentra principalmente su affinità e divergenze tra sionismo politico e sionismo religioso.
In particolare, l’autore vuole rendere evidente che le due correnti, pur partendo da presupposti diversi, giungono a ritenere necessaria la medesima “soluzione”: l’eliminazione completa del cosiddetto “problema arabo”, ossia del popolo palestinese.
In uno studio sulle cosiddette “Forze di Difesa Israeliane”, comunemente note sotto l’acronimo ebraico Tzahal, Amedeo Maddaluno sostiene che le forze armate del regime sionista, al di là delle diffuse versioni apologetiche, sono eredi di un’ideologia nata come progetto militante e militare nel filone dei nazionalismi ottocenteschi. E conclude: “Se verranno meno il collante militarista e l’ideologia ‘Bibbia e fucile’, verrà meno anche la potenza di Tel Aviv: i fatti dell’Ottobre 2023 avranno su questo collante ideologico un impatto incalcolabile”.
Abbiamo poi diversi articoli che si occupano delle relazioni internazionali del regime sionista. Particolarmente degno di nota, in quanto basato su una documentazione proveniente dagli archivi del Ministero degli Esteri tedesco, è lo studio che Matteo Marchioni dedica ai rapporti del regime sionista con la RFT, il governo della quale si è mantenuto al fianco di Tel Aviv anche nel corso del genocidio nella Striscia di Gaza, confermando così un lungo sodalizio postbellico, giustificato con le fin troppo note affermazioni di tipo moralistico. Tuttavia, a quanto risulta dal saggio di Marchioni, i rapporti intercorsi tra la RFT e Tel Aviv hanno conosciuto momenti di maggiore o minore tensione, dato il costante tentativo della Repubblica Federale di bilanciare i propri interessi economici e politici nei confronti dei Paesi del Vicino Oriente.
Al Vicino Oriente si riferisce anche l’articolo di Aldo Braccio, il quale inquadra il sostegno dato dal regime sionista ai miliziani e ai terroristi curdi in un progetto di disintegrazione e di frammentazione del Vicino Oriente, progetto che, pur avendo sue caratteristiche precipue, trova una sponda perfetta nella politica statunitense. L’articolo passa in rassegna gli aspetti storici della questione curda, ricostruendone alcuni passaggi fondamentali e mostrando come essa sia stata cinicamente strumentalizzata da forze estranee alla regione.
Si riferisce invece alla regione caucasica l’articolo di Yves Bataille, che mostra come Israele intrattenga da una trentina d’anni una stretta collaborazione con l’Azerbaigian, il quale, oltre a fornire armi e petrolio al regime sionista, costituisce una base per le operazioni spionistiche israeliane contro l’Iran. Secondo Bataille è stato proprio questo rapporto tra Tel Aviv e Bakù a consentire al governo azero di procedere alla pulizia etnica dell’Alto Karabakh senza suscitare le proteste dell’Europa, vittima delle proprie autolesionistiche sanzioni contro la Russia.
L’articolo di Franz Simonini, significativamente intitolato L’offensiva di Israele nel continente nero, spiega come le iniziative diplomatiche di Tel Aviv corrispondano ad una ricerca israeliana di spazio in Africa: non solo per motivi d’ordine propagandistico e comunicativo, ma soprattutto per ragioni di carattere strategico. Lo Stato ebraico cerca, infatti, nel continente nero gli appoggi per una politica che ha di mira il Mar Rosso, l’Oceano Indiano e l’Iran.
Per quanto riguarda l’America latina, Luca Lezzi osserva che l’entità sionista, da sempre alleata del potere statunitense nel subcontinente, dopo il brutale attacco israeliano alla Striscia di Gaza si trova in difficoltà nei rapporti con gli Stati della regione, alcuni dei quali hanno rotto i rapporti diplomatici con lo Stato ebraico.
Tuttavia il fronte che si è opposto a Tel Aviv è stato fortemente compromesso dall’esito delle elezioni presidenziali argentine, vinte dall’ultraliberista Javier Milei, il quale ha dichiarato di voler trasferire l’ambasciata argentina da Tel Aviv a Gerusalemme.
L’articolo di Gilles Munier, Memorie di un antisionista militante in Algeria, ripercorre le vicende di una vita dedicata alla solidarietà con la causa palestinese. Gilles Munier, che esordì nell’attività pubblicistica come corrispondente da Algeri del mensile “La Nation Européenne”, ripercorre le vicende che dal 1967 lo hanno visto attivamente impegnato sul fronte antisionista, nell’attività di segretario permanente dell’Association de solidarité franco-arabe e di segretario generale dell’organizzazione Amitiés franco-irakiennes.
Il dossario si conclude con un articolo del direttore, Claudio Mutti, dedicato al dibattito sul sionismo che negli anni Trenta del Novecento coinvolse ambienti fascisti, nazionalisti, nazionalsocialisti e cattolici. Se all’epoca alcuni pensavano che la volontaria emigrazione degli ebrei in Palestina potesse rappresentare una soluzione della questione ebraica e creare difficoltà alla Gran Bretagna in un punto nevralgico del suo impero coloniale, altri invece si opponevano al disegno sionista, poiché, come prevedevano i gesuiti di “Civiltà Cattolica”, “uno Stato giudaico in Palestina sarà sempre un fomite di disordine e di perpetua guerra tra i giudei e gli arabi”.
Reca la firma del direttore anche l’articolo di apertura del volume, intitolato Il mito sionista del “ritorno”, nel quale viene contestata la tesi secondo cui gli Ebrei attuali sarebbero i discendenti degli Ebrei biblici e quindi avrebbero il “diritto” di impossessarsi della Palestina.
Un altro testo attinente alla questione sionista non è contenuto nel dossario, ma è stato pubblicato nella sezione “Documenti”. Si tratta di Polonia e lobby ebraica, un saggio che, firmato “Claudio Veltri”, circolò una quarantina d’anni fa in un opuscolo attualmente introvabile.
L’altro documento pubblicato in questo numero di “Eurasia” risale invece al 1947 ed è il discorso che Benedetto Croce pronunciò all’Assemblea Costituente contro il cosiddetto “Trattato di Pace” imposto all’Italia dai vincitori del secondo conflitto mondiale.
Nella sezione “Continenti” si possono leggere due articoli. Il primo è dovuto ad un riconosciuto esperto della realtà nordcoreana, Francesco Alarico della Scala, ed è un esame del rapporto che nella Repubblica Popolare Democratica di Corea intercorre fra ideologia socialista e dottrina confuciana.
Il secondo è un contributo di Giovanni Tonlorenzi, nel quale si spiega come la riscrittura della storia da parte dell’Occidente abbia lo scopo di rendere sempre più docile l’opinione pubblica internazionale e di giustificare il mantenimento del cosiddetto sistema “basato sulle regole”. Tonlorenzi descrive come operazioni di questo genere siano servite non solo contro la Russia, per delegittimarla e disumanizzarla nel conflitto in Ucraina, ma anche contro la resistenza palestinese, equiparata da Netanyahu ad un “nuovo nazismo”.
Le interviste riportate in questo numero di “Eurasia” sono tre. Una è stata rilasciata al direttore dal vice addetto alla cultura di Hezbollah; un’altra gli è stata rilasciata dal Vice Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Islamica dell’Iran; la terza intervista è stata rilasciata a Luca Tadolini dal colonnello Fabio Filomeni, autore del libro Morire per la NATO?
Il volume si conclude, come al solito, con le recensioni librarie, tra le quali troviamo quella del libro di Franco Morini (con prefazione di Franco Cardini e postfazione di Matteo Pio Impagnatiello) su D’Annunzio, la massoneria e le barricate di Parma.