Sabato, 28 Ottobre 2023 10:26

“Lavoro migrante” - Africa-fabbrica: andate e tentativo di ritorno. In evidenza

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Di Francesca Dallatana Parma, 28 ottobre 2023 -  Ha diciotto anni appena compiuti. E’ piccolo di statura e ha occhi mobili. Guizzi di sguardi dicono di lui che è un ragazzo sveglio. Da una fila di denti marci fischia fuori un italiano comprensibile.  Se ne è andato dal suo Paese perché ha difeso una bambina promessa in sposa a un uomo più vecchio di lei.

Un bambino che ha protetto una bambina.

E il clan contro di lui ha scatenato una maledizione così forte da obbligarlo alla fuga.  La nuova lingua l’ha imparata velocemente. E’ stato facile perché l’ha appiccicata al francese malandato. Sempre attento ogni giorno a lezione: si è fatto notare. Piccolo di età e sveglio.

Proviamo a proporlo per un lavoro, pensano gli operatori della struttura di accoglienza, in Italia. E’ serio e tenace, Segue tutto il percorso di formazione e riesce a fare parte della rosa di candidati per la grande azienda. La lingua acciaccata ma fluente, la faccia bambina, i denti marci e rotti e gli occhi grandi da cerbiatto e le domande, un fiume in piena di domande per i selezionatori: facile superare l’ostacolo con gli operatori prima e con i selezionatori dell’azienda poi. No al tirocinio, dicono gli specialisti della selezione. Ci sia subito un contratto di lavoro per questo lavoratore adulto con la faccia sveglia ma da bambino sperduto. Inizia il lavoro e scatta l’adozione da parte della capo turno verso questo uomo-bambino con il corpo piccolo e gli occhi grandi e il fischio in bocca. Lui sorride senza denti. Impara tutto. Prima di iniziare il lavoro acquista il sapone indicato dagli operatori, bianco e neutro. Si veste, si muove esattamente come vede fare agli altri. E va in mensa a mangiare a pranzo, dove osserva tutti e mangia, ogni volta, un piatto diverso. Vuole essere come i colleghi e diventare molto bravo, il più bravo. Il primo giorno è veloce e forse troppo nello spacchettare un grande imballo e gli rimangono impigliate le dita nella plastica tagliente  delle regge. Tira e tira e non viene nulla. Tira e tira e prova a spostare il grande pacco in una zona dello stabilimento dove nessuno lo vede. Spaccherebbe la scatola se solo riuscisse, se solo nessuno lo vedesse. La plastica taglia ed è dura e gli ferisce le dita ma lui continua, ormai sanguina e macchia il pavimento e ha un dolore lancinante ma deve togliere le dita dal pacco oppure il pacco dalle dita. Sta per impazzire di dolore quando arriva la capo-turno e con una forbice taglia in due le regge. Le dita sanguinano e fanno male. Il ragazzo viene allontanato dal reparto e trasferito in infermeria. Non fa male, niente dolore, deglutisce la vergogna e dice che le regge erano strette e che voleva essere veloce e che non ha trovato la forbice e che non sapeva come fare.  Confessa la vergogna e piange. E si butta fra le braccia della capo-turno mentre lei lo riporta fuori dal pianto come si fa con un bambino dimenticando che  questo è un lavoratore e che poteva tranciarsi le dita.

Piange e la capo turno lo abbraccia. A casa, vai a casa e ritorna domani. Un giorno di permesso. Il giorno della vergogna lo passa su un cuscino di lacrime. Non ha pianto neanche sul barcone quando la sete stava per sprofondarlo in fondo al mare, quando da solo è arrivato sulla costa e si è sentito perduto. Torna in fabbrica il giorno dopo. Lo chiama il responsabile del personale e lo chiama la capoturno, lo incontrano insieme. Non deve lavorare così velocemente, gli dicono. Non deve essere frettoloso, infondo ha appena iniziato il lavoro. Non deve dimostrare di essere bravo, deve solo imparare. Ricaccia le lacrime in gola e prende il foglio con il piano di lavoro della giornata. Glielo fanno leggere a voce alta in italiano, come se fosse un bambino, e gli dicono che deve fare solo quelle cose e niente di più. Lavora e lavora per altri tre mesi, poi per altri sei, poi per altri sei fino a che il contratto viene trasformato a tempo indeterminato. E si avvicina la scadenza del permesso di soggiorno, un vecchio permesso per motivi umanitari prorogato d’ufficio per la pandemia Covid-19 del 2020. Lui vuole ritornare nel suo Paese, per qualche tempo. Gli manca l’Africa e i suoi ritmi. E chiede le ferie, per andare. Vuole incontrare la sua famiglia, perché ormai la sua difesa alla ragazza è una cosa lontana nel tempo. Venti giorni di ferie: ha diritto al riposo, mette insieme la valigia e se ne va. In Africa il tempo viaggia in modo diverso. Più veloce e più lento: due ritmi incompatibili che stanno insieme. Ma soprattutto l’Africa obnubila il ricordo del nord e disegna una grande bolla intorno alle teste delle persone e fa dimenticare il ritmo della fabbrica, la cadenza del lavoro, la scadenza degli impegni. In Africa per tutti è un uomo, uno che se ne è andato. Ma uomo. E’ andato via come un uomo in fuga ed è tornato come un uomo sopravvissuto. Tutto è cambiato. Ritrova una ragazza che adesso ha i fianchi larghi di una donna. E arriva fino all’ultimo giorno e sull’aereo non sale. Passano i giorni e lo chiamano, dopo un periodo abbastanza lungo, due settimane, lo chiama il responsabile del personale e lui sente la sua preoccupazione e gli dice che sta tornando, lo chiamano ancora gli operatori, prima uno e poi un altro, e gli chiedono con maggiore insistenza se davvero lui voglia tornare. Anche a loro dice di sì, lui tornerà. Intanto il permesso di soggiorno è scaduto. Un operatore gli dice che è possibile rinnovare il documento anche da dove si trova, perché durante la pandemia le regole sono cambiate, e gli spiega come fare. Il secondo operatore gli chiede di mandargli una copia del biglietto aereo e di dimostrare che davvero vuole tornare. Allora lo acquista, lo stampa, lo fotografa e glielo manda. Ma non lo conferma e  non lo paga. Non parte. Lo chiama  un mediatore e gli parla nella sua lingua, dall’Italia. Anche a lui dice che sta per tornare. Dopo pochi giorni spegne il telefono italiano. E l’azienda lo aspetta ancora e si preoccupa. Poi il responsabile del personale comincia a considerare  il suggerimento degli operatori: licenziamento.

E’ un brutto esempio per gli altri lavoratori.

La lettera arriva e la ritira un suo coinquilino, nella vecchia casa di accoglienza dove ancora è formalmente residente. Il ragazzo legge il nome dell’azienda sulla busta quando la consegna all’operatore e gli chiede se ci sia un lavoro anche per lui.

Il tuo coinquilino ha danneggiato anche te. Bastava dirlo con le parole: non ritorno più al lavoro.  Gli operatori lo dicono a tutti quelli che chiedono un lavoro nella grande fabbrica dove Abou non è tornato. Il più deluso di tutti è il responsabile del personale della grande azienda. Alla fine della pandemia Abou è ritornato in Europa, attraverso la Bielorussia. E si è impantanato nel bosco polacco, verso l’Europa. I bielorussi lo spingevano verso la Polonia. E lui si è perso nella terra di nessuno del bosco. Non è più ritornato alla fabbrica. Un’unica telefonata a un operatore per chiedere aiuto. Poi non ha più risposto al telefono e nemmeno ha telefonato. Non si sa se sia uscito dal bosco e arrivato da qualche parte in Europa. Oppure se nel bosco il lavoratore-bambino abbia incontrato il lupo.

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