La denatalità colpisce pesantemente l’Italia. Un vero e proprio crollo demografico che inizia a spaventare per davvero economisti, studiosi di statistica, e dulcis in fundo la politica. Già, la politica arriva sempre ultima ad analizzare i fenomeni sociali, ma soprattutto a porvi rimedio con opportuni provvedimenti legislativi e governativi.
L’allarme rosso sul punto è stato lanciato nel corso di un incontro di studio organizzato dalla Banca d’Italia e dall’Istat nei giorni scorsi. Gli effetti nefasti del crollo demografico che colpisce l’Italia a macchia di leopardo, con punte davvero notevoli nel Mezzogiorno, rischia di avere conseguenze incalcolabili sull’economia del Bel Paese.
Infatti si prevede un calo del Pil del 25%. Mentre il Mezzogiorno rischia un vero e proprio tracollo dell’indice di ricchezza nazionale definito prodotto interno lordo, addirittura del 40% nel 2061. Il quadro anche in questo caso è quello solito.
Esiste una Italia a varie velocità. Il Nord ricco che corre come una locomotiva, ed un Mezzogiorno che arranca, riuscendo a malapena a stare dietro: nelle carrozze di coda. Ed in tutto questo non riusciamo ad immaginare cosa potrebbe accadere se andasse in porto la riforma Calderoli sulla autonomia differenziata.
Ma vediamo le nude cifre sciorinate nel corso della giornata di studio sugli effetti della denatalità sull’economia italiana.
Da un po’ di tempo, le imprese hanno notevole difficoltà nel reperire manodopera sia generica che specializzata. E’ uno dei primi effetti dell’onda lunga della denatalità. In Italia si fanno pochi figli, e nel tempo la forza lavoro è sempre in numero inferiore alla richiesta ed alla domanda degli imprenditori. I rimedi potrebbero essere in primis politiche di occupazione di donne e giovani ed una attenta ed oculata politica migratoria, che potrebbe fornire forze fresche da impiegare nelle nostre imprese. Secondo le previsioni dell’Istat nei prossimi 40 anni la popolazione italiana calerà di ben 10 milioni di persone nella fascia di età compresa tra i 15 ed i 64 anni. Ciò comporterà una contrazione del prodotto interno lordo calcolata in meno 500 miliardi di euro. Una cifra astronomica, corrispondente ad un meno 25% del Pil.
Mentre per il Sud e per le Isole, il calo sarà ancora maggiore, attestandosi ad un meno 40% già perché le ondate migratorie interne dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord sono una costante ormai da svariati anni con una curva sempre crescente, coinvolgendo in particolare i giovani diplomati e laureati del Sud, che scappano letteralmente verso le regioni più ricche, in grado di offrire lavoro e condizioni sociali di vita migliori di quelle offerte dalla propria terra di origine.
Addirittura il Mezzogiorno risulta poco attrattivo anche per i migranti extracomunitari che sbarcano sulle coste del Sud, e poi scappano via verso il Centro- Nord ed altre nazioni estere.
Ultimo ma non ultimo in ordine di importanza è un altro fenomeno che impoverisce il Sud. Ovvero la fuga dei cervelli. Secondo i dati diffusi dallo Svimez: l’Associazione privata senza scopo di lucro che si occupa di studi sul Mezzogiorno, ogni anno fuggono dal Sud 40 mila cervelli. Ovvero giovani altamente scolarizzati che scappano a gambe levate dalla propria terra in cerca di lavoro, ma anche di servizi più efficienti che indubbiamente le regioni del Centro-Nord sono in grado di assicurare. Di sicuro un altro fattore è che le retribuzioni offerte al Sud sono più basse di circa il 20% rispetto al resto d’Italia.
Ogni giovane che va via è un pezzo di Pil perso dal Mezzogiorno, che rischia la desertificazione, se non saranno assunti provvedimenti in grado di frenare il fenomeno. Secondo il rapporto Istat sulle migrazioni interne nel decennio 2012-2021 il Centro- Nord con le migrazioni dei giovani meridionali , in particolare gli studenti che sempre più vanno a studiare nelle Università del Centro- Nord, recuperano le perdite dovute alla denatalità. Insomma con la fuga degli studenti meridionali verso le Università di altre regioni, il Nord guadagna 116 mila studenti. Il Centro 13 mila. Una vera e propria fuga di capitale umano perso, dopo aver investito su di esso. Dal 1995, secondo i dati diffusi dallo Svimez; ben 1.500 mila laureati hanno lasciato la propria terra: il Mezzogiorno, per cercare lavori adeguati e ben retribuiti, ma anche condizioni di vita sociali diverse.
Insomma le statistiche appena divulgate corrispondono ad un vero e proprio bollettino di guerra. La domanda a questo punto sorge spontanea: quanto tempo dovrà passare ancora per cambiare le sorti del Mezzogiorno d’Italia con politiche lungimiranti che frenino la fuga dei cervelli; assicurando loro nella propria terra natia, quelle condizioni lavorative e sociali che invece trovano altrove?
L’augurio è che ciò accada prestissimo: prima che sia troppo tardi!