Martedì, 26 Gennaio 2021 16:11

Rubrica sul Sociale, l'Angolo d'Intesa - Il treno della felicità In evidenza

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- Nonna che fai?

La  trovo seduta in giardino  a fissare la sua tartaruga.

Gliel’ha regalata mio zio ed è diventata subito uno dei suoi pensieri fissi dal giorno in cui è arrivata.

Sofia, questa buffa creatura che troneggia in giardino come una regina si fa spazio con fatica  e decisione tra le dure  zolle di terreno appena arato.

- Ah sei tu? - ma non si volta e vorrei abbracciare subito quella sagoma così familiare, riempirla di baci, accarezzarci le mani come facevamo quando ero bambina.

Riesco solo a fissare il suo maglioncino di lana rosso tra le piante rigogliose del suo giardino, i suoi capelli grigi impeccabilmente pettinati con sinuose onde  all’indietro. La vedo ricurva, indifesa, per la prima volta vedo la mia infanzia spegnersi 

- Perché non vieni  a salutarmi?

- Nonna c’è il virus, lo sai, non posso. 

Non posso. Vorrei approfittare di questi ultimi momenti che ci restano, avvicinarmi, farle i ricordare il suono delle nostre risate, ora che vedo i suoi occhi bui  e  assenti, ma non posso. Devo restarmene qui. Ferma. Distante. Come mi ha raccomandato la mamma, come mi hanno raccomandato tutti.

- Guardala che “caputosta”-  e resta con lo sguardo fisso su Sofia che nel frattempo audace e coraggiosa come un leone si accinge  ad attraversare una  montagnetta.

Mi avvicino a  lei che  a stento mi riconosce. Ha l’aria stanca, indifesa, delicata. Mi guarda incerta.

- Nonna sono io. 

Ma non sono sicura che mi abbai riconosciuto e non voglio renderle questo compito ancora più difficile, perciò prendo una sedia  e mi siedo a due metri di distanza da lei.

Nonostante ciò  mi sembra ancora di sentire il profumo del suo collo sotto al quale mi accucciavo da bambina quando mia mamma mi sgridava, sento ancora quelle mani nodose, rese dure dalla terra, accarezzarmi le tempie.

Dev’essere questo l’amore, ricordare, custodire, abbattere ogni limite di tempo e di distanza per sentirsi vicine. Io  lo so che in mezzo  a tutto quell’oblio lei ha conservato ancora un posto per me, ne sono certa, lo sento, perché ogni tanto ci voltiamo, ci guardiamo e ci riconosciamo. Una parte dell’altra.

Anche se non posso baciarla, anche se non può ricordarmi, io so che lei sa che ci sono, che io  esisto.

L’impatto della pandemia sugli anziani è stato veramente catastrofico in questi mesi e non solo in termini di fragilità ma anche di solitudine e di rispetto. Si stima che l’Italia sia uno dei paesi più longevi in Europa (circa 14 milioni di anziani), questo grazie al miglioramento delle condizioni di vita e alla vittoria sulle grandi malattie. Tutto ciò  però, mette in grave crisi il sistema del welfare di oggi che si trova davanti a nuove e difficili sfide da affrontare e allo stesso tempo spaventa le famiglie, che tra i ritmi frenetici della vita moderna si scoraggiano e si chiedono come possano provvedere al loro sostentamento.

Si finisce così ad abituarci a vederli come un peso, un problema, dimenticandoci invece  dell’enorme  loro  apporto all’interno delle nostre  vite. Sono voci, echi lontani di un passato fatto di memoria, storia e tradizione. Penso a tutto questo ora, seduta in giardino, mentre osservo il lieve sorriso di mia nonna sbocciare davanti all’ultima luce del sole, in quel suo increspare le labbra è racchiusa tutta la mia infanzia. Mi vengono in mente le scorpacciate di gelati in piazza durante la calura estiva, le passeggiate al mercato la mattina presto per scegliere le verdure più fresche, l’odore di pane appena sfornato, le storie la sera prima di andare a dormire, su strani folletti dispettosi che intrecciano di notte fluenti criniere di cavalli.

Tutta qui la loro ricchezza, nella garanzia della memoria.   

- Perché chi non ha memoria non può avere gratitudine - , mi diceva sempre. 

E mi raccontava storie di guerra, storie di fame, fame di pane e fame di libertà, storie di sacrificio e  di rinuncia, di morte  e separazioni: – Tuo nonno è stato catturato dai fascisti, ma poi è scappato . Ci vollero tre mesi affinché ritornasse a piedi a casa e una volta giunto in paese nessuno lo riconobbe, sporco com’era, con tanto di barba lunga  e pieno zeppo di pidocchi -.

Ecco, prima della nostra, ce n’era un’altra di realtà, sarebbe giusto ricordarla come lei vorrebbe: la realtà delle donne che non potevano studiare, la realtà di uomini costretti a impugnare un fucile e a  uccidere altri uomini, quella dell’amore per la patria e del coraggio nel dissenso. 

- Guarda che combattere è più bello di vincere!-. La realtà della famiglia che si riunisce la sera a tavola, quella dei canti tra le vigne durante la vendemmia e delle fuitine di giovani ragazzi a notte fonda

- Zia Meni l’ha fatta la fuitina, in sella dietro la bici dello zio -.

- Ma perché nonna?-

-Ehhh  cosa vai a credere??? Che prima si poteva uscire con “lo zito” come ora??? -.

Davanti  a un coro inespresso ma saldamente convinto che “tanto è un vecchio”, seduta accanto a questa donna,  in questo preciso momento,  nulla mi pare attempato né degenerato, semmai colmo e  pregno di  tutta quella saggezza  che riesci ad inalare solo nel tempo, che la rendi tua e la custodisci come ricchezza, solo perché te l’hanno resa gli anni  in cambio di qualche  ruga  e stempiatura. 

Io accanto a mia nonna in questo preciso istante mi sembra di respirare spazi aperti, sconfinati, mi sembra di visitare per la prima volta l’immensità che passa sopra le nostre teste, mi sembra di abbracciare il  dono grandioso del tempo e ringraziarlo per quello che  ero, che oggi sono e che un domani diventerò.

Mia nonna così indifesa ora la vedo come un gigante farsi spazio tra la nebbia e il buio di questi tempi per mantenersi viva, intatta, oltre il tempo che passa, oltre la vita che sfiorisce. La vedo attaccata su quella seggiola salda, ferma, con i suoi pendenti alle orecchie, una roccia  senza paura, superare le ultime zolle di terreno che le rimangono. Il suo è un giardino che non svigorirà mai.

-Toh guarda, ce l’ha fatta,  non c’è bisogno che la guardi ancora, è tornata nella sua tana, ha superato la montagnetta, guarda…- ma non si volta.

Poi dopo un attimo di silenzio mi fissa  e mi dice:

- Ma poi sei tanto carina senza tutto quel nero agli occhi, anche se sei sempre troppo magra -.

Allora dentro di me sento un’intensa esaltazione che non posso lasciare andare. L’oblio non me l’ha sottratta, almeno non del tutto.  Ha lasciato ancora in mezzo  a tutto quel vuoto, un giardino sempre verde dove ogni tanto torniamo per incontrarci.- Resisto all’impulso di stringerla al petto, così fragile, così minuscola, rischierei di spezzarla.

 Le sorrido e le dico : - Hai ragione nonna, sono sempre troppo magra, ma ieri sai cos’ho visto?

- Che cosa?

- Il treno della felicità, nonna.

- Davvero?  E com’era stavolta? 

- Bello nonna, come quello che guardavamo insieme  alla stazione partire.

Luccicano gli occhi. 

Sorride.

Piange.

Sì, dev’essere questo l’amore.

Riconoscersi.

Roberta Calzolaro 

 

 

 

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