Prima fermata: Romania. Stazione dei treni di Oradea. E’ tanto stanco da non ricordare l’arrivo. Gli sembra di essere stato scaricato sul cemento insieme ad altri corpi. Dal sottosuolo saltella fuori un gruppo di bambini curiosi che gli girano intorno. Tastano lo zaino, gli mettono le mani sul corpo. Cercano qualunque cosa, ma qualcosa. Vivono di niente. Raccolgono bottiglie di vetro e le vendono oppure le spaccano sulle teste per difendersi o per aggredire se intuiscono ci sia qualche cosa da prendere e che possa servire a sopravvivere. Il giovane uomo è più grande di loro, ma è un ragazzo. Non reagisce alle mani sul corpo. E’ stremato di stanchezza.
Lo portano di sotto, tra i tubi della fognatura. Il caldo del sottosuolo rassicura. Rubano il tepore a chi vive sopra. Si dorme nella pancia della terra, sotto l’asfalto delle strade. Ci si preserva dai pericoli di fuori, in balia di se stessi e della propria sorte.
Sopra sfrecciano auto, di grossa cilindrata con targhe rumene e con targhe italiane. Dribblano le voragini scavate dal maltempo e mai riparate. Le auto hanno tutte i vetri oscurati. Sulla strada, la laida disperazione. Dentro gli abitacoli, luce soffusa e musica tenue. La vita ha ritmi diversi. Dipendono dal contenitore. Le macchine sfrecciano. I topi di fogna sono sporchi e aggressivi.
I bambini entrano ed escono dalla terra ferita. Fumano di tutto e sniffano colla per dimenticare la fame. Sono neri come gli spazzacamini. E sono più vecchi di lui, molto più vecchi di lui: loro sono solo bambini e lui è un giovane uomo di vent’anni. Di quello che era prima, nel suo Paese d’origine, è rimasto solo il sorriso: denti regolari bianco neve attorno ai quali sboccia una corolla di labbra piene di colore rosa scuro.
Dorme con i bambini sotto la strada della stazione perché non sa dove andare. Di giorno vaga per la città, alla ricerca di cibo. E dell’uomo che gli ha promesso un lavoro, al quale ha dato tutti i soldi che aveva per pagare il viaggio di sola andata.
Dalla Romania i rumeni se ne vanno altrove alla ricerca di lavoro. Ma gli hanno detto che all’est Europa per lui, per loro, il lavoro c’è. Ha cercato l’uomo della promessa non mantenuta. Scomparso nel nulla. Non gli ha dato il lavoro. Ma si è fatto pagare il viaggio per l’inferno.
Seconda fermata: agricoltura. Quando manca la colla, i bambini diventano aggressivi. Tra di loro e con i passanti e crudeli con gli animali. Nelle notti difficili nessuno di loro dorme e gli agguati all’esterno sono il diversivo che accelera il tempo. I topi di fogna sono sanguinari. E ritornano nell’ombra del sottosuolo dopo avere commesso il reato. Il giovane uomo disperde il tempo vuoto dell’attesa di nulla nelle strade verso la campagna. Vaga a piedi fino allo sfinimento. Si addormenta in un fosso. Si sveglia al centro di una fila di falò dalla fiamma alta verso la notte: un fuoco potente brucia cumuli di paglia fino a toccare il cielo. Si addormenta appoggiato ad un albero con l’Apocalisse del fuoco dentro gli occhi.
Sveglia, ragazzo. Un calcio nello sterno lo ribalta sulla paglia ispida. Il sole picchia forte la testa dall’alto. Mangiare, bere? Lavorare? Lavorare, sì. L’uomo ha le braccia abbronzate fino a metà dell’omero, i pantaloni lunghi infilzati dalle spighe. Gli fa segno: seguimi. Quattro muri tenuti insieme da una colata di cemento posticcia, una veranda con un gruppo di persone che mangiano da gamelle di latta ammaccate pezzetti di carne e un pastone di verdure e di patate. Hanno colori e facce diversi. Nessuno parla.
Fuori dalla veranda l’orizzonte è lontano. Rettangoli di verde si alternano alla terra squadrata dalle piantine posate a distanza regolare, in linea retta tendente all’infinito. Alla fine di ogni fila, poco prima dell’asfalto della strada, una scritta rossa su un cartello bianco recita il nome dell’azienda tedesca proprietaria del terreno e della coltivazione. Su qualche cartello è rimasto il vecchio nome americano.
Ci sono i tedeschi, gli americani. Qui si lavora.
Otto, dieci ore inginocchiati a controllare le piante, la presenza di parassiti e contestualmente a togliere sassi inutili e erbacce. Il lavoro di tante persone costa meno di una macchina. Un controllo così preciso una macchina non lo può fare.
La stanchezza del primo giorno si dissolve nella brezza della notte. Non si respira la fogna, fuori. Fa freddo al mattino dopo le tre. Al mattino del secondo giorno ci si sente rigenerati. Dal terzo giorno la stanchezza contagia la notte. E il sonno fatica ad arrivare. I lavoratori che non dormono bevono alcolici di basso prezzo. Qualcuno li ha comprati. E chiede di essere pagato subito. Un bicchiere costa come una bottiglia. Qualcuno beve e sta seduto in cerchio con qualche altro collega, sulla veranda. Altri, molti altri, stanno per conto loro.
I lavoratori sono vestiti come spaventapasseri: pantaloni larghi, camicia larga, un grande cappello con le falde ampie e cadenti. Marionette con gli abiti fluttuanti manovrati sulla scena del lavoro dai burattinai che conoscono bene i loro bisogni. Andare. Spostarsi in un altro inferno. Più duro o meno duro non importa, ma diverso da questo. Fino a ieri il burattinaio era una marionetta.
Terza fermata: Italia.
La certezza di un viaggio è il pagamento del biglietto. Il biglietto è una promessa nel vento, una parola data e mantenuta se possibile. Si paga il servizio di trasferimento di un corpo. I soldi li ha fatti nelle campagne rumene. Si è spaccato la schiena alla ricerca di un altro inferno di transito o forse di quello definitivo. Il trafficante dice di avere un contatto con un’azienda agricola nell’Italia del sud, dove si raccolgono pomodori. Chi è abituato a lavorare in Romania, non ha problemi in Italia. Si firma anche un contratto.
Il viaggio: ammassati in un container dove si spera di svenire per il caldo per soffrire di meno. L’incubo termina sull’acciottolato di una strada di campagna. Una casa diroccata con meno cemento di quella rumena e più mattoni sbrecciati. Una tenda strappata sventola davanti alla porta di ingresso. Giovani uomini di colore entrano ed escono, ciabatte infradito ai piedi, lo sterno sporgente, gambe sottili e lunghe e magre. Urlano. Scheletri ricoperti di nervi e di pelle. Lui è il più bianco di tutti. Il lavoro della Romania è servito per il passaggio agli inferi di qui. Il denaro non è gli è passato per le tasche. Il burattinaio ha deciso che era tempo di scaricarlo altrove quando sui campi rischiava di addormentarsi sulle piantine, quando aveva cominciato a sperare di morire sulle piantine.
Almeno qui, nella terra, servirei a qualcosa. Ha pensato lui.
In Italia, in quel sud di lavoro, il mare non si vede. Del mare non ha paura come dei fiumi. Ma dall’acqua vuole starsene lontano. Gli è toccata quella sporca delle fognature, in Romania. Era abituato al fiume, al fiume traditore, in Bangladesh.
Si parte in squadra, si rimane in squadra. Si è pagati individualmente. Si dice quanto si guadagna. Ma non si mostrano i soldi. Sul denaro c’è pudore. Qualche cosa rimane a chi non ha debiti antichi. Circolano soldi, banconote. Non arrivano i contratti. Nessuno li chiede. Il più vecchio è stato male, l’altro giorno. Lo hanno scaricato davanti al pronto soccorso. E’ entrato solo. E’ uscito solo. Capiva qualcosa ma ha finto di non capire. E’ ritornato a lavorare per guadagnare. Sotto il sole, la schiena piegata, i piedi rotti, la testa che va in giostra dopo una genuflessione di ore sui campi di lavoro. L’inferno finisce quando il sole si abbassa. E cala dal cielo la pioggia dalla quale se ne vuole andare.
Pioggia, pioggia e Bangladesh.
Cancella la memoria di ieri, il fiume. Quando esonda.
Il giorno prima sei in negozio a farti un selfie con il telefonino. Dopo che è passato il fiume sopra la casa non sai dove andare a dormire. Nessuno ti ospita. Perché nessuno ha una casa. Il fiume ha cancellato tutto, l’intero villaggio.
L’esondazione del fiume è un trauma. E’ un passaggio obbligato. Cancellare il file della vita precedente è la cosa più salutare. Altrimenti la rabbia rischia di assalire il cervello quando è disarmato.
Una libreria di colori, fatta di stoffe. Un sorriso bianco risalta sfacciato su uno sfondo a ripiani orizzontali di abiti, camicie e magliette ripiegati con cura. La apre di frequente la fotografia di se stesso prima che la prepotenza della corrente eliminasse per sempre i muri della sua casa. Quando il fango della costruzione si è disperso nei vortici profondi del fiume, quelli infidi. Che lavorano forte e da sotto. Che non si fanno vedere.
Prima di andare al lavoro, pettinava i capelli all’indietro e li tratteneva con il gel.
Aspettava i clienti dentro il negozio. Riordinava gli abiti e puliva il pavimento in continuazione. La polvere era un velo insidioso che si infilava ovunque. Umida e appiccicosa dentro le scarpe incollava la pelle dei piedi alle calzatura, si infilava subdola tra le dita. Sogna di indossare le ciabatte, sotto il tavolo del negozio. Dopo gli inferni di transito, la terra ha inghiottito la veemenza del fiume. Che si è eclissato in una delle voragini di Oradea.
Di selfie in selfie.
L’Italia per uno che arriva da fuori brulica di possibilità. Rider con partita iva, tirocinanti con orari di lavoro di due giri di quadrante d’orologio, facchini chiamati al lavoro da un momento all’altro con contratti al ribasso, addetti alle pulizie con contratti di lavoro di due ore incollati al telefono in attesa di essere chiamati a fare gli straordinari. Nel settore agricolo, l’alloggio garantisce la disponibilità al lavoro quanto basta e al bisogno.
Il giovane è passato di selfie in selfie. Al bar della stazione di Reggio Emilia invia le fotografie delle pizze che ha sfornato al suo capo cinese, che controlla il numero di pizze giornaliere, il numero di porzioni vendute, quanto ha lavorato il pizzaiolo e quanti clienti sono passati. Se il lavoratore ne mangia un trancio lo deve pagare.
Dorme in un fazzoletto di pavimento vicino al bagno del cinese: paga l’affitto. Ha la residenza da un’altra parte: ha pagato.
Tutto si paga: il fiume che esonda, l’inferno di transito, il puparo. Vorrebbe pagare per dimenticare.
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(Link rubrica: lavoro migrante ” https://www.gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=lavoro%20migrante&ordering=newest&searchphrase=exact&limit=30 )