Sabato, 27 Aprile 2024 06:41

“Lavoro migrante” - La vita degli altri. Zero value In evidenza

Scritto da Francesca Dallatana

Di Francesca Dallatana Parma, 27 aprile 2024 -

Un fotografo ruba frammenti della vita degli altri. E’ un furto autorizzato dal mestiere. Nessuna pena, se la vita è di nessuno.

Faceva il fotografo per sfida sociale, non per motivazione. Noia mortale, il lavoro di fabbrica e di ufficio: non voleva essere un numero come gli altri.

Anche il furto annoia. La vita degli altri è sempre uguale. Dopo l’abuso non vale niente.

L’est Europa gli aveva rivelato una nuova luce. Un’illuminazione sfacciata sui volti e sui corpi.

Al confine ultimo con la Russia del nord il talento era risorto dalle ceneri.

Una nuova mostra, con le grandi stampe di paesaggi, di volti e di corpi e di comune disperazione: il suo riscatto.     Il fotografo.

Il bianco e nero della fotografia aveva trasformato in piombo il rosso del vestito. La macchia grigia della colata ancorava il corpo alla panchina imbullonata all’asfalto, dentro al gazebo della fermata dell’autobus. Tutti passavano e guardavano, nessuno si fermava.

La ragazza era inchiodata a quel posto e a quel tempo. Condannata a una pena definitiva. Il corpo molle abbandonato sul ferro e alla ruvidità della vernice sbrecciata, in posizione quasi fetale, con le gambe magre e scure ripiegate e i capelli biondi e sporchi incollati alla fronte. Nessuna possibilità di fuga. Più sicuro di un carcere di alta sicurezza. Sorrisi di compiaciuta pena balenavano in un guizzo fugace negli sguardi di chi rallentava il passo per controllare che il tenue sospiro di rassegnazione non fermasse per sempre il trepidare lento del seno.

La morte arriva quando vuole. Anche se la vita non è ancora arrivata. La fotografia.

La fotografia si era dilatata sulla parete e l’aveva inghiottita nel labirinto della memoria. La donna aveva una sete che veniva da lontano. Era entrata alla mostra solo per bere.

Bere annulla il futuro. Beveva per evitare di vivere. Quando si supera la soglia della ragione il futuro sparisce e non c’è più niente da dimostrare. La prima volta che aveva perso coscienza la testa ovattata del risveglio era diventata il motivo per non dipingere. Nessuno avrebbe riso di lei, per quelle strane cose che colorava con il pennello.

Inaspettatamente aveva riconosciuto il luogo della fotografia, un villaggio verso Narva, al confine con la Russia.

Era la sua terra. Riconosceva il freddo. Ed era in attesa, tra l’angoscia negata e l’ansietà di un impegno dimenticato.

La tensione della pittura era diventata un tenue rammarico. Era ritornata la eco delle voci, del dileggio trattenuto nei sussurri. Ricordava il freddo sporco tramesso dal metallo della panchina sul corpo e la bocca impastata. L’immagine continuava a dilatarsi sulla parete quasi a volerla inghiottire.

Stava dimenticando di bere. La sobrietà avrebbe drammaticamente riaperto la finestra del passato e obbligato la vista alla feroce feritoia del futuro. La lucidità l’avrebbe ricacciata nella fogna delle risate a denti rotti mentre le mani, una sull’altra, una dopo l’altra, della sua famiglia e delle persone del villaggio la spingevano nel lerciume più basso, lo sporco che neanche il mare lava via. La ragazza.

Il rosso del vestito era impigliato nella memoria tecnica del fotografo: con un foto-ritocco avrebbe potuto lasciare al rosso la funzione di ricordare il sangue del mestruo impudico e della vita incarcerata. Invece aveva mantenuto l’essenzialità del bianco e nero per sottolineare la fissità senza tempo del corpo immolato sulla panchina.  E aveva fermato il tremore del corpo nell’imperfetta attesa di una abbozzata posizione fetale. E’ lì che si torna. All’inizio. A ciò che non si è fatto. A chi non si è diventati. Il fotografo guardava l’immagine da lontano.

Tra lui e la parete, una donna alta e bionda con i capelli appiccicati al collo e le gambe larghe a cercare l’equilibrio della posizione eretta.  

Lui vuole bere per onorare la fotografia. Lei pericolosamente dimentica di bere   Il fotografo, la fotografia.

Da bambina dipingeva. Ritraeva la vita di tutti. Raccontava il mondo. Senza averlo sfiorato. Chiedeva ai familiari e ai conoscenti di guardare le sue tele, le cronache di vita.

Loro osservavano seri nel tempo incerto della comprensione. E poi ridevano. E le rubavano le tele, i pennelli e se li passavano di mano in mano e imbrattavano le tele, le laceravano con il cutter.

Le ricordavano nel gioco infinito e circolare del dileggio le cronache di vita e di dolore che aveva pennellato sulla tela. Si mettevano in posa davanti alla tela, facevano smorfie e chiassosamente ne ridevano.

E le dicevano: adesso mangia i pennelli, mangiali e vediamo se ingrassi.  Ricordava il rumore delle risate scomposte. Sentiva il pianto arrivare dalla gola e il dolore galleggiare nello stomaco e il cervello disperdersi in una confusa girandola di affanno. Insistenti sussulti cercavano il pianto del conforto. Pregava il freddo del mare di seppellire il tempo, di trafiggerle il corpo. La ragazza, Estonia.

Il fotografo avrebbe voluto svegliarla, darle la mano. Tutto il tempo per scegliere l’inquadratura, per fare diversi scatti, cambiare gli obiettivi alla macchina fotografica. Intorno a lui, silenzio.

Dileguati gli spettatori, mimetizzati nel sottobosco in attesa di ricomparire e di riaccendere i fuochi del dileggio intorno al corpo.

Era rimasto immobile di fronte al vestito rosso. Gli tremavano le mani per il peso della macchina fotografica. La vista annebbiata aveva trasformato la ragazza in un monumento di marmo deterso dalla fatica oltraggiosa della quotidianità. Avrebbe voluto toccarle le ginocchia. Si aspettava fossero ruvide. Avrebbe voluto ucciderla con un colpo sparato dall’obiettivo della macchina fotografica, ucciderla per liberarla.

Lei avrebbe voluto dormire per sempre in un anfratto nascosto del mare Baltico e risorgere con le fate della neve nell’inverno estone e giocare a nascondino nel silenzio dei boschi. Solo così avrebbe annullato le offese, il dileggio, il dolore inferto al corpo, le cinghiate alle gambe, la pressione dei pollici sui fianchi quando doveva scontare la pena perché sorpresa a dipingere.

Aveva cominciato a bere per sopravvivere. Beveva per anestetizzare la vita. Ogni volta che l’intorpidimento abbandonava il corpo le rimaneva la sensazione sbiadita di dovere finire qualche cosa senza ricordare cosa.                                                                                                                                                                                                                   Il fotografo e la ragazza, Estonia.

Il fotografo guardava la donna in piedi davanti alla fotografia di se stessa. Anche quella era una fotografia.

La donna aveva riconosciuto la ragazza. Adesso, aveva dimenticato di bere. Per lungo tempo, bere le aveva fatto dimenticare di vivere.

Il fotografo aveva bisogno di carburante per braccare la fotografia. Doveva fare il pieno, proprio come in Estonia, come a Narva. Quando l’aveva trovata per caso e fotografata, aspettata, conosciuta e poi portata via.

Lei si era ritrovata ancora una volta serva non in una casa ma in una roulotte, imprigionata in un Paese nel quale non poteva dipingere ma non poteva neanche parlare perché non conosceva la lingua. Se ne stava seduta con le spalle inclinate in avanti, la testa abbassata verso il pavimento. Non capiva quella lingua nuova. Non aveva imparato, non ci aveva provato. Non ne aveva avuto il tempo.  Lui le parlava in inglese, con la sua pronuncia strana. Lui acquistava alcolici di basso prezzo e se ne andava a mangiare con gli amici, dopo che il corpo di lei veniva risucchiato dall’anestesia.

Era diventata vecchia da giovane. Non si era riconosciuta subito nella fotografia. La figura, il luogo e il corpo le erano familiari e l’immagine aveva calamitato la sua attenzione, nonostante si sentisse su di giri. In tarda mattinata il valzer del senso di colpa e della sedazione dell’ansia era già iniziato da ore. Per continuare il ballo continuava a buttare giù, qualunque cosa purché fosse alcolica. Per diversi mesi aveva camminato a gambe larghe con un prurito insopportabile per il caldo sudaticcio del pannolone che non poteva cambiare di frequente ma neanche farne a meno. Poi si era rassegnata. E aveva cominciato a rimanere seduta e in silenzio dentro la roulotte. Di giorno in giorno si era abituata al fastidio colloso nella parte bassa del corpo. A tratti lo confondeva con il ricordo della sabbia incollata dal mare dolce del nord durante i freddi bagni della sua gioventù quando ancora aveva l’idea di futuro dava il ritmo alla sua mente, le gonfiava il cuore, tamburava il ritmo della vita.

Beveva sempre di più. Lei, un corpo superfluo per lui. Era sufficiente la fotografia che lo aveva reso famoso.                                                                                Il fotografo e la ragazza, Italia.

Accucciata su un foglio disegna con una matita senza punta, sul pavimento della roulotte. L’assistente sociale non si annuncia. Ha disegnato una panchina con una ragazza accartocciata: si è ripresa il suo corpo. L’assistente sociale le tende la mano. In piedi è più alta di lei. Non barcolla, ma trema. Non beve da un giorno. L’assistente sociale l’ha vista alla mostra. Le parole non servono. Prende una vecchia borsa consumata, uno zaino con dentro un passaporto e un portafogli vuoto, un libro e un blocco grande e la matita spuntata. L’utilitaria bianca esce dal greto del fiume a rilento, entra sul nastro di asfalto verso l’ambulatorio. La ragazza guarda il film di alberi e di case fuori dal finestrino.  La ragazza, Italia.

La ragazza estone è accolta dalla fine del 2023 in una struttura protetta di una città dell’Italia del nord. Si sta disintossicando. Studia la lingua italiana. Disegna e dipinge. E’ impegnata come tirocinante presso una cooperativa sociale. Segue un corso di arte-terapia. Vorrebbe diventare una animatrice sociale e usare il suo talento per aiutare gli altri. E’ flessuosa come un giunco. Non più un corpo da rubare. E’ bionda e alta, con la pelle perfetta e bianca.

Il fotografo vive ancora nella roulotte. Acquista alcolici di basso prezzo. Non sa più cosa rubare. L’ha cercata. Non l’ha trovata.                                                   La ragazza e la sua vita, Italia.

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(Link rubrica: lavoro migrante  https://www.gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=lavoro%20migrante&ordering=newest&searchphrase=exact&limit=30 )