Sabato, 20 Aprile 2024 08:47

“Lavoro migrante” - Padroni. Exploitation. In evidenza

Scritto da Francesca Dallatana

Di Francesca Dallatana Parma, 20 aprile 2024 -

Morire di fatica, per sopravvivere. Pochi soldi e tanto sonno. Ogni giorno il lavoro aumenta.

La caposquadra ha osservato con attenzione la nuova operaia per un paio di giorni, dalla telecamera interna del gabbiotto dell’uomo della sicurezza; poi ha fatto una visita agli impiegati degli uffici per una ricognizione, un breve saluto.

E’ un bulldozer, la nuova: gambe di elefante, una grande pancia in continuità con un seno prominente, braccia grasse e grosse e dita rotonde con la lacca rossa sbrecciata sulle unghie di plastica. La caposquadra aveva dubbi per la stazza, invece fischia come un treno. Ha bisogno di lavorare. A casa ha due figli da mantenere, grandi ma appena arrivati dall’Ucraina, ragazzi che si aspettano grandi cose dall’Europa: soldi, soldi e vita facile. La caposquadra conosce la trama del film. Ha vissuto una storia simile al suo arrivo.

La nuova supera la prova e il terzo giorno arrivano i complimenti del capo e la richiesta di fare un lavoro in più “solo perché sei brava”. La caposquadra aggiunge sempre una stanza, un anfratto. Di notte questo edificio si riproduce in superfetazioni interne, maleodoranti e posticce. Ma da pulire. Gli strumenti di lavoro sono sempre gli stessi: il carrello delle pulizie, con i prodotti che devono bastare per un periodo lungo. Le colleghe pratiche del mestiere fanno un uso moderato dei prodotti a esalazioni forti. Le fragranze intense danno la sensazione di pulito. Lavorare assiduamente nello stesso luogo permette di diluire la fatica, insieme ai prodotti.

l padrone finge di pagare lo stipendio e il lavoratore finge di lavorare.

E’ una delle regole fondamentali della sopravvivenza lavorativa.

La si impara dopo avere superato le fasi della stanchezza estrema ai limiti del collasso, della rabbia viscerale, della ricerca di una soluzione esterna, qualche volta estrema. Senza escludere picchiatori a pagamento e gomme forate come ammonimento. La si pratica quando il lavoro rappresenta una gabbia dalla quale è impossibile uscire, pena la perdita dell’autonomia all’interno del proprio clan.

La sopravvivenza arriva dopo lo sfruttamento.

La grossa operaia ha urgenza di denaro, necessità quotidiana di fare acquisti di beni superflui e di rappresentanza e cibo spazzatura.  La caposquadra ha notato l’ambizione di apparire alla moda: le scarpe trendy, la pantacalze, la casacca a doppio petto indossata all’arrivo, i braccialetti e i capelli con tinta fresca e taglio nuovo.

Le dice “brava” e può permettersi di aggiungere lavoro al lavoro, ogni giorno uno spazio in più. Le ore di lavoro, sempre le stesse e lo stipendio sempre uguale. Meglio l’operaia pulisce e più la caposquadra aggiunge.

Fino a un mese fa erano in due a fare il lavoro di uno. Il costo del lavoro  ora è dimezzato. Mantiene più breve la durata del contratto perché si sa quanto sia difficile trovare lavoro per una straniera, quanto poco ci si fidi di una che arriva da un altro Paese. Troppe incognite: i documenti, la permanenza sul territorio, la mobilità.

I lavoratori non li conosci bene neanche quando li conosci.

A un certo punto i diritti prendono il posto del lavoro e si lavora lo stretto necessario per avere diritto alle tutele: il superamento del periodo di prova, il diritto alle assenze per malattia, le ferie, e soprattutto, la disoccupazione. Per non essere licenziati. Cambiare tanti posti di lavoro per la stessa mansione di operaia addetta alle pulizie è come dichiarare che non si è capaci di pulire oppure che non si ha voglia di lavorare.

Gli stranieri imparano presto a rivendicare i diritti. E’ per questo che all’inizio del lavoro la caposquadra chiede molto. Il periodo di prova è un momento magico.

L’incertezza incentiva la motivazione.

 La preoccupazione di ritornare a elemosinare il lavoro nero schiaccia l’acceleratore del lavoro.   Per dimostrare di valere l’ingombrante lavoratrice mantiene lo stesso ritmo con carichi di fatica sempre più alti, a parità di stipendio. 

La flessibilità è disponibilità allo sfruttamento ed è al servizio della stabilizzazione del contratto.

Quando si passa dall’altra parte, in terra di contratto a tempo indeterminato, la visione del lavoro cambia: il tempo rallenta, allenta la pressione, la motivazione sbiadisce fino a scomparire.

Lei, la caposquadra, fa lo stesso lavoro da tempo. Controlla il lavoro degli altri come sa fare solo chi ha lavorato e chi conosce il lavoro.

E’ più dura del padrone: per questo ha conquistato la promozione sul campo. Ad ogni nuova assunzione aumenta gradualmente i carichi di lavoro fino al limite massimo della resistenza umana, con l’obiettivo di abbattere ai minimi termini il costo del lavoro. La caposquadra stana di primo acchito chi lava i pavimenti a secchiate. Sono quelli che vengono dalle case con i pavimenti in terra battuta.

Con la lavoratrice dai piedi tanto gonfi da sembrare zampe di elefante si spinge fino al limite estremo del suo secondo respiro, quello che non ci si aspetta quando si annega sotto la crosta d’acqua di un lago immobile di stanchezza mortale.

Lo sfruttamento del lavoro è una dipendenza per i padroni.

La caposquadra si ferma un attimo prima di perdere la lavoratrice. Si presenta con la proroga del contratto di lavoro, oggi.

Domani potrà chiedere ancora, di più. E sa già che i piedi di elefante lavoreranno di meno.

Ieri sera, la grossa è affondata nella palude del sonno. Era tanto stanca da non riuscire ad entrare al supermercato. Non ha acquistato cibo spazzatura e birra. Si è infilata sotto le coperte vestita.

Resurrezione immediata per il corpo.

La caposquadra ha aspettato per mezz’ora, con la proroga del contratto. Senza risposta, la telefonata.

Infila i guanti e prepara il carrello. Ritorna a fare le pulizie. La sostituisce perché non si è presentata. Lavora, nonostante lei debba comandare. Il passato ritorna.

 Noi siamo il nostro tempo.                                                                              Exploitation.

Ho visto piangere un bianco, per la prima volta, ieri sera. E’ la mia padrona. Quella che mi paga lo stipendio, che controlla il mio lavoro. I capelli dispersi sulla tastiera del computer, la testa appoggiata allo schermo. Le braccia abbandonate sul tavolo.

Il pianto disperso. Lo standing frantumato in una inattesa umanità.

Ha perso l’autorevolezza del doppio petto del giorno. Lei che non si ferma, che si alza al mattino presto e va a dormire tardi, sempre in autostrada per lavoro, con il telefono nelle orecchie.

E’ sempre lei e piange. Adesso piange.

Per un attimo ho pensato di avvicinarmi e di abbracciarla. Lei mi ha visto piangere e urlare più di una volta. Io non l’avevo mai vista piangere. Lei mi ha rassicurato ogni volta che sono caduta. Ha risolto i miei problemi. Ma questo è un mio diritto.

Lei ha avuto la fortuna di nascere e di vivere in un Paese ricco. Io sono povera e non ho studiato. Non avevamo cibo sufficiente.

Mi sono girata, sono salita per la scala di legno che porta al piano superiore e sono andata a letto. Mi sono messa i tappi nelle orecchie e la maschera sugli occhi. Il mio orario di lavoro finisce alle ore otto di sera.

Sono qui da cinque anni. E lei non aumenta il mio  stipendio. Invece io ho diminuito il lavoro. Perché la vecchia adesso è sempre a letto e non ha bisogno.

Qualunque cosa succeda di notte in questa casa io non sento, quindi non mi alzo dal letto. Neanche se mi sveglio. Mi hanno insegnato a considerare il lavoro come un contratto, senza emozione.

Vivo in Italia da molti anni e ho trovato lavoro subito o quasi. Questo è un Paese di vecchi e di gente che corre, senza il tempo della vita.

A noi hanno delegato ciò che è considerato superfluo, che non produce merci oppure denaro. Ma che ruba il tempo. Noi vendiamo il nostro tempo all’attesa della morte. Questa notte la vecchia ha urlato forte. La manager si è alzata, ha trafficato, ha portato a forza il corpo verso il bagno, l’ha appoggiato alla seduta, ha aspettato, lo ha sollevato, ha percorso il corridoio e l’adagiato di nuovo sul materasso. Alla fine del trasferimento del corpo, di stanza in stanza, la manager si è sdraiata sul pavimento, senza cuscini e senza coperte: è rimasta immobile per qualche minuto, ha respirato lentamente, riallineato la schiena.

Questa notte respirava pesante. Pensavo fosse la vecchia a fare fatica, invece era la giovane. Ma io non ho sentito. Anche se non ho dormito.  Lo stipendio è regolare ma è troppo basso. Di sicuro potrebbero pagarmi di più e controllare meno per quanto tempo sto a letto al pomeriggio, quante volte al giorno mi inginocchio a pregare, come lavo i piatti e se li lavo, dove guardo la tv: se in camera con la vecchia oppure in salotto sul divano. Al mattino sorrido e chiedo se tutto vada bene. La donna giovane si alza all’alba ed esce di casa presto: ha una famiglia da un’altra parte e i colleghi del lavoro che chiamano in continuazione. Il suo lavoro sembra non finire mai. Il mio finisce alle ore otto di sera e ricomincia alle ore otto del mattino. Di notte non lavoro e di giorno posso organizzarmi come voglio: è un lavoro di attesa e di pazienza.

L’importante è essere presenti non quello che si fa.

Il padrone è padrone solo quando paga lo stipendio.

Padroni.

 

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(Link rubrica: lavoro migrante  https://www.gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=lavoro%20migrante&ordering=newest&searchphrase=exact&limit=30 )

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