Rotondo e d’ambra, il viso incorniciato dalla seta colorata del foulard. Il corpo si disperde nei panneggi della stoffa che l’avvolge. Strizza gli occhi e allunga la mano aperta, il palmo rivolto al cielo. Davanti alla stazione questa mattina le persone vanno di fretta. Lei ha ancora tempo prima del lavoro.
Salta fuori dalla grande scatola di cartone dentro il ponte di vetro. Il tempo di alzarsi e il vestito ampio e colorato prende forma, non sembra più un ammasso di stracci. Ha dormito con il foulard sul volto, a mascherare gli occhi. Capelli raccolti ma liberi. Freddo in testa.
Quando non si dorme si puzza. Il sonno ha il potere terapeutico di contenere gli eccessi della traspirazione. Il sonno impone la doccia al cervello. E il cervello telegrafa al corpo. Comanda di stare meglio, reprime la stanchezza. E’ una percezione, non un fatto. Si assesta il foulard sulla testa. Si illude di avere dormito. Dorme all’aperto da una settimana.
Le amiche somale l’hanno mandata via perché non ha pagato l’affitto dei due metri quadrati di pavimento. Lei ha mandato tutti i soldi in Somalia, alla donna che ospita sua figlia, una bambina di otto anni. La donna si fa pagare per fare dormire la bambina sotto un tetto, su un letto. Di giorno la bambina lavora.
La madre lo immagina ma non lo sa. Di notte può stendersi su un letto per qualche ora. La madre manda soldi alla donna. E sta cercando di mettere insieme i documenti per permettere alla bambina di raggiungerla. Non dormirebbe neanche se avesse un letto sotto il corpo.
Lavora in un ristorante da tempo. Parla poco ma lava parecchi piatti. La stanchezza oggi puzza. Prima di raggiungere il ristorante le resta qualche ora di tempo. Si siede davanti alla stazione dei treni. Gli occhi sono fessure, il palmo della mano disteso.
Si ferma solo un giovane uomo. E’ somalo, come lei. Potrebbe essere un suo fratello minore. Oggi è libero dal lavoro.
Parlano in somalo. Lei apre gli occhi, lui le tende la mano e lei si alza da terra. Si scambiano i numeri di telefono. Lei abbandona la postazione dell’elemosina. Lui sparisce nella folla della strada. Stazione dei treni, Parma.
Bello. Giovane. Brillante. Velocemente ha imparato la lingua. L’isolamento per il Covid gli ha permesso di non perdere tempo inutilmente.
Gli italiani si aspettano le parole di contorno. La pandemia le ha cancellate. Sono rimaste quelle attutite dallo schermo. Sorride molto e parla poco. E’ puntuale e ringrazia sempre. Non è difficile superare un colloquio di lavoro. Qualcuno lo ha fatto al posto suo. Lui si è impegnato, prima. Lezioni di italiano, ogni giorno. Orientamento al lavoro, per due volte alla settimana. Dimostra di apprezzare il collegamento. Si collega di sera con la scuola, per le lezioni serali all’istituto tecnico.
Capelli corti, denti bianchi, occhi grandi. Dieci, venti, trenta giorni e l’operatrice gli propone un colloquio di lavoro. Non esattamente un lavoro. Uno stage, un tirocinio. Insomma, una simulazione di lavoro. Nell’attesa che la malattia passi e che il tempo fermo del Covid si movimenti un tirocinio è un diversivo. Ha attraversato deserto, terra e mare per guadagnare soldi. Non per stare chiuso in una casa a seguire lezioni di italiano.
Non serve la forza fisica, qui, come in Libia. Non picchiano e si mangia regolarmente senza lavorare. Si dorme su un letto ricoperto da stoffe pulite e si va dal medico quando il corpo rallenta.
Facile imparare a dire le cose da dire. L’operatrice gli ha detto tutto, prima. L’uomo dell’azienda lo ha portato in giro per i reparti. Si sono seduti insieme alla macchinetta del caffè. Ha bevuto acqua e caffè durante il Ramandan. Ha sentito una fitta di zuccheri nel cervello.
Ha fame, anche se la notte precedente ha mangiato. Ha sorriso e ha bevuto. L’uomo non ha pensato al Ramadan. Allah ha capito che quel caffè era per una buona causa. L’uomo ha parlato molto e ha osservato con attenzione i denti bianchi e le poche parole. Poi ha telefonato. E ha detto che sì, si può cominciare con il lavoro.
Tre, sei mesi di tirocinio. Ha fatto le pulizie nel piazzale, ha tagliato l’erba, gradualmente si è trasferito dentro l’azienda e ha fatto le pulizie. Poi ha cominciato a riordinare i tavoli di aggiustaggio. Ha dato tempo all’attesa. Si è fidato della graduale lentezza del lavoro.
Così diverso da quello in Libia. Senza botte. Senza richieste di riscatto. Senza carcerazioni inaspettate. Dalla fabbrica si entra e si esce, con regolarità. Il tirocinio è pagato. Meglio del lavoro in Libia. E la fatica non è paragonabile.
Il tirocinio dopo sei mesi diventa un lavoro e lo stipendio raddoppia. A sentire gli italiani, lo stipendio è molto basso. E molto basso lo diventa anche per lui quando esce dalla casa dell’accoglienza, dove tutto è pagato: l’affitto, la luce, il cibo, i vestiti. Ma è alto anche se è molto basso e se gli resta poco. Quel poco che resta è molto di più di quanto ha bisogno. Paga l’affitto, adesso. Ma può bastare a se stesso. Dorme e lavora. Al sabato cammina per il viale della stazione dei treni. Confine tra Emilia e Lombardia.
Al lavoro lei non parla. Il ristoratore non sa se capisca la lingua oppure no. I piatti li lava. Ma non parla. L’ha sentita parlare solo una volta, quando gli ha chiesto un letto e soldi in anticipo dello stipendio. Ha parlato lentamente e correttamente. Sembra non volere parlare con loro, con le persone. Dopo mesi ha saputo che ha una figlia in Somalia. Non sa dove dorma. Ha il sospetto che dorma per la strada ultimamente. Gli sembra stanca. Gli abiti puzzano più di prima. Le ha imposto di togliere l’eccesso di tela con la quale avvolge il corpo e di indossare i pantaloni bianchi e la casacca. Le ha ordinato di indossare il cappellino e di togliere il foulard dalla testa e dal collo. Non è sicuro, per il lavoro nella ristorazione. Non è igienico. Lui rischia di essere sanzionato e addirittura di chiudere il locale. Lui non sa che cosa fare per una persona che non vuole parlare.
Lei si è vestita di bianco. Il corpo è rimasto nel torpore della grande scatola della notte. Ha mantenuto gli odori della strada, ma non svolazzano i panneggi. La donna ha pianto solo una volta con il ristoratore, quando le amiche le hanno messo la valigia in strada. Dormiva sul pavimento, ma almeno aveva un tetto sulla testa. Non ha pagato l’affitto, perché la donna somala che ospita sua figlia le ha chiesto di più. Lei ha privilegiato la bambina.
Ed è finita dentro lo scatolone. Dovrà pagare anche per quello, prima o poi, a qualcuno. Arriva sempre qualcuno a chiedere soldi per stare su questa terra.
Il ristoratore ha cercato casa per lei. Ha un contratto a tempo indeterminato. E lui può garantire. Ma non ci sono case per gli africani. Che imbrattano i muri, portano dentro figli e figli e poi è impossibile sfrattarli, cucinano carni puzzolenti di odore persistente e duraturo e riempiono i balconi di scarpe e di rifiuti. I soldi non sono sufficienti per i loro affitti. Perché quando se ne vanno le case sono discariche a cielo aperto. E la manutenzione è infinita. Eppure i piatti lei li lava anche per loro, per quei proprietari di case che vanno al ristorante di sera. Ristorante, Parma.
Al lavoro lui sorride e parla poco. Capisce tutto, lo si vede dagli occhi. Non lascia trasparire i pensieri. Pulisce con attenzione tutto quello che gli capita. Impara in fretta. Lui è arrivato per ultimo. Osservato con sospetto, dagli operai che vanno e vengono dal mondo intero. Ad affondare nella terra le pipelines per il gas. E’ un’azienda ricca, questa del settore Oil&Gas, e può permettersi di mantenere anche uno come lui a fare le pulizie e a imparare a maneggiare gli attrezzi al bancone dell’aggiustaggio. Gli piacerebbe andare in giro per il mondo con il gruppo di operai a tagliare la terra di ghiaccio al nord, dove si posizionano i tubi che alimentano di caldo tutta l’Europa. Ma per lui non ci sarà posto a breve nella cerchia ristretta di quelle persone dai gesti ieratici e dallo sguardo duro.
Lavorano molto, girano il mondo, si sentono forti, guadagnano tanto. E’ un lavoro per privilegiati.
Di pelle marrone, nuove e lucide. Uscite fuori da una scatola senza polvere: le scarpe del capo. Il direttore del personale cammina rigido con i piedi infilati nelle suole morbide. Ha capelli d’argento, lunghi fino alle spalle, lievemente mossi e con ciocche graffiate di viola, la pelle liscia e occhiali profilati d’argento. Il suo vice è senza fissa dimora, anche lui con capelli alle spalle ma neri, giacche e scarpe più usurate di quelle del suo capo. Nella grande imbarcazione ormeggiata al fiume indossa solo scarpe leggere per natante e di quelle ne ha una collezione. Il giovane è più gentile. Gli dice sempre “buongiorno” quando lo incontra nel piazzale. Il vecchio invece sembra non vederlo. Spera che il capellone giovane non lo inviti sulla barca. Le poche volte che gli è capitato di salire su una barca in Somalia lo ha fatto con i piedi scalzi. Avrebbe difficoltà a mettere le scarpe da barca. E, soprattutto, le dovrebbe acquistare. Il giorno che il capo-marinaio gli ha detto dell’assunzione, lui ha letto i numeri dello stipendio e ha fatto il calcolo dei mesi necessari per pagare il debito per il viaggio, i mesi di affitto della nuova casa e del denaro per andarsene via, prima in Somalia e forse in Germania dopo. Azienda Oil&Gas.
Fuori dalla scatola, con il foulard al vento. Il tempo le è calato addosso all’improvviso, questa mattina. La mano tesa, gli occhi strizzati dal sole. Il giovane operaio ha fasciato gli occhi con lenti a specchio, i riccioli mossi dalle folate di aria. Lei lo riconosce. Ha un biglietto anche per lei, soldi anche per lei. E per la bambina. Parlano stretto protetti dalla loro lingua. Soldi sufficienti per sopravvivere e per ricominciare. I datori di lavoro aspetteranno e cercheranno un contatto con i lavoratori. Invano. La vita degli altri è un luogo oscuro. Dovunque, ma altrove.
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(Link rubrica: lavoro migrante ” https://www.gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=lavoro%20migrante&ordering=newest&searchphrase=exact&limit=30 )