Domenica, 21 Gennaio 2024 09:03

“Lavoro migrante”: Svetlana Voronova Erokhina In evidenza

Scritto da Francesca Dallatana

Mosca docet. Russian heritage.

Intervista di Francesca Dallatana Parma, 21 gennaio 2024 - Intorno a Mosca, due anelli concentrici. E’ molto verde la capitale russa, fuori dal secondo perimetro. Ritiro per studiare. Scrivere e pensare.

Lei viene da qui. Lei è Svetlana Erokhina.

Viene dall’Istituto di Fisica e di Tecnologia di Mosca. Lo chiamano il Mit russo. Fra i pochi e più accreditati centri di ricerca al mondo. Niente da invidiare al Massachusetts  Institute of Technology, il Mit. 

A Mosca, per conseguire il titolo si lavora duro. Trentacinque ore settimanali, fra seminari e laboratori. Oltre alle ore quotidiane di studio. Durata: sei anni. Si accede tramite concorso di alto profilo. Qui ha lavorato e insegnato Lev Davidovic Landau. Una potenza intellettuale, intelligenza di inusuale rarità. Nell’ambiente si dice che questo percorso universitario valga un dottorato in Fisica conseguito in Italia e un PhD americano.

Impossibile bloccare nella fissità di una fotografia i suoi occhi di azzurro incredulo. Sguardo vivace e puro come la prima neve di Mosca. Quella più bianca.

Italiana di adozione, russa per scelta, ucraina di nascita. A Parma, negli ultimi vent’anni ricercatrice associata e studiosa presso Imem-Cnr, l’Istituto dei Materiali per l’Elettronica e il Magnetismo del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Impegnata come mediatrice culturale.

Quando arriva a Mosca a sostenere il concorso per entrare all’Istituto di Fisica e di Tecnologia il suo nome è Svetlana Voronova. E’ una studentessa di diciassette anni. Non è sicura di superare la prova.

Lo sferragliare del treno le impone il ritmo della determinazione.

Il treno 185 da Sumy porta a Mosca. Nella capitale sovietica sono arrivata per la strada ferrata”, racconta.  

Vagoni di seconda e di terza classe: quattro posti letto per scompartimento oppure trentasei.

Inesorabile l’incedere sulle rotaie, attraverso terre dall’orizzonte aperto e lontano dove il respiro si disperde nello spazio.

Dove la ragione si illude di intuire il concetto di infinito.  

“Conoscevo la difficoltà degli esami di ingresso per l’Istituto. Cinque esami: due orali e tre scritti. E nessun test con le crocette”, spiega l’intervistata.

Era un tempo di grande mobilità sociale fra i Paesi dell’Unione Sovietica.  “Ogni allievo viveva nello studentato. Anche i residenti a Mosca. Parlavamo con cadenze e accenti diversi. La convivenza ci ha reso simili. Alla fine dell’Università l’esperienza di studio e di ricerca ha permesso di mantenere la vicinanza anche se abitiamo e lavoriamo distanti. Circa cento persone frequentavano il corso. Eravamo divisi in gruppi. Noi eravamo in diciotto. Seguivamo i seminari e lavoravamo in laboratorio. Veniamo da città diverse. Qualcuno si è trasferito. Altri sono rimasti a Mosca. Ci sentiamo e ci incontriamo ancora. Parliamo. Esprimiamo opinioni e posizioni. Non abbiamo paura di dirci in disaccordo. Siamo sempre noi in regime di libertà di pensiero. E’ il messaggio di civiltà del grande Paese nel quale ci siamo formati come cittadini e come studiosi.”, osserva.  

La vita della giovane donna ucraino-sovietica riprende a Mosca in versione lavoratrice e madre di famiglia. Due figli, nati nella capitale russa, un collega di studi e di ricerca diventato suo compagno di vita. E un lavoro rispettoso dei tempi della vita privata, in sintonia con l’esigenza di conciliare la professione con gli impegni personali e di famiglia.

Ai tempi dell’Unione Sovietica. A Mosca.

 “Lavoravo presso un’unità militare. La differenza tra lavorare per i militari e per la società civile era nello stipendio e nell’esigenza di riservatezza. Pagavano di più e mi era richiesto di non divulgare informazioni, di non dire di che cosa mi occupavo, che cosa facevo. Il riserbo fa parte del codice culturale suggerito dalla formazione universitaria. E’ uno stile. Il lavoro era molto interessante. La fisica è sempre la fisica.”, fa notare Svetlana Voronova Erokhina.

Poi una proposta di lavoro al compagno di vita e di ricerca. “Possibilità significative e interessanti: Von Humboldt in Germania e un percorso post dottorato presso Esrf, European Synchrotron radiation facility di Grenoble, in Francia. E la terza: Genova. Il mare di Genova, l’Università di Genova. Abbiamo scelto l’Italia. Abitavamo a Cogoleto.”, riprende il filo dei ricordi.

Eravamo gli unici arrivati da fuori. Prima di noi una famiglia polacca, che se ne è andata. Nei primi tempi ci siamo organizzati. Acquistavo le stoviglie e i vestiti al mercato. Mi sembrava strano che il mercato si tenesse in un giorno prestabilito. Le nostre abitudini erano diverse. Avevamo mercati permanenti al coperto. E la possibilità di acquistare beni durevoli per la casa. E libri e musica. Con costi ragionevoli. Parlavo poco la lingua italiana. Ma rispondevo come potevo a tutte le domande. Volevo conoscere le persone e farmi conoscere. Alle richieste di informazioni rispondevo con sincerità. Quando mi chiedevano il motivo della nostra presenza a Genova io dicevo: il padre dei miei figli lavora a Genova. Mi guardavano tutti in modo strano. A molti anni di distanza ho capito quale fosse la sfumatura a fare la differenza. Avrei dovuto dire: mio marito lavora a Genova. Per me era implicito. Per chi non ti conosce non lo è.”, dice sorridendo.

A Cogoleto la vita scorre per dieci anni, per Svetlana Voronova Erokhina e per la sua famiglia.

Studia la lingua italiana e la impara a livello professionale. A Genova chiede e ottiene l’equipollenza della laurea conseguita a Mosca. Presso la stessa Università vince il concorso per il XV ciclo del dottorato di ricerca in “Scienze e tecnologie biofisiche” e consegue il titolo nel 2003. Una prova ampiamente sostenibile per una studentessa dell’Istituto di Fisica e di Tecnologia di Mosca. Genova e Cogoleto accolgono i sovietici con formale rispetto.

Vi saluto, sovietici. Paolo, anzi il signor Paolo di Cogoleto, aveva sempre un pensiero. Non ho dimenticato il cenno della mano formale e affettuoso che accompagnava le parole di disponibilità e di attenzione rivolte a noi.”, ricorda la ricercatrice.

Nel frattempo il vento della Storia spettina l’ordine mondiale dell’Europa.  

Nel 1994 alla cittadina Svetlana Voronova Erokhina si impone una scelta.

Lei, nata a Pozhnia, studentessa a Mosca, lavoratrice e residente a Mosca, emigrata in Italia per motivi familiari e accademici, deve scegliere tra la cittadinanza ucraina e quella russa. Da Pozhnia è partita per Sumy, da dove la ferrovia sovietica l’ha accompagnata al concorso di ingresso per l’Istituto.

Nel 1994 ho scelto di diventare una cittadina russa. I miei figli sono nati a Mosca. La mia formazione culturale è sovietica. Mosca è la città nella quale ho vissuto maggiormente, che mi ha permesso di spiccare il volo, di impostare il mio viaggio. Una scelta suggerita dalla ragione e dalle condizioni della vita.”, spiega.

Un tratto distintivo di Mosca? “A Mosca puoi uscire e perderti. Nessuno ti conosce. A Cogoleto noi eravamo sempre noi. Ma tutti ci vedevano. Tutti sapevano.”

Il treno Sumy-Mosca: interessata e curiosa di salire di nuovo su quel treno? “Dipende. Farei come allora. Farei come si fa in un grande Paese, dove sono nata e dove spesso ritorno. Se ho soldi viaggio in modo più comodo. Altrimenti posso ritornare in terza classe e dormire nel vagone insieme alle altre persone. “La studiosa è rimasta la stessa ragazza del viaggio sul treno 185 verso l’esame di ingresso all’Istituto.

In una battuta, come è andata in Italia? “Non importa dove siamo. Ma chi siamo. E che cosa facciamo. Come lo facciamo e che cosa pensiamo. L’ambiente può diventare basico o acido. Noi siamo sempre noi.”

Dal 2003 per i vent’anni successivi la ricerca ha reso interessante la vita quotidiana della famiglia Voronova Erokhin.  La ricercatrice Voronova ha collaborato con l’Imem, Istituto dei Materiali per l’Elettronica e per il Magnetismo.

Un lavoro che l’ha resa migrante di ritorno, pendolare tra l’Italia e Kazan, in Tatarstan. A diverse centinaia di chilometri da Mosca, a est. “Il Tatarstan è una Repubblica della Federazione russa. A maggioranza tatara e con la presenza di diverse confessioni religiose. A Kazan ho formato ricercatrici e ricercatori in bio-fisica. Un ritorno in terra russa, importante per me. Sono tornata per lavorare. Ho fatto tesoro dell’esperienza italiana. Ho condiviso parte del mio patrimonio culturale. Una restituzione ideale al Paese nel quale è cominciata la mia storia lavorativa. A Parma ho continuato a lavorare in laboratorio. Mi piace molto lavorare in laboratorio. La mia è una specialità di interfaccia tra la fisica e la biologia. Difficile semplificare in poche parole il mio lavoro. La collaborazione con l’Imem mi ha permesso di sperimentare ante pandemia  il lavoro da remoto. Il continuo dialogo con la Russia e con l’Ucraina mi ha dato la possibilità di mantenere il contatto con il mio passato e con la parte della mia vita russo-ucraina mai sbiadita ma sempre molto presente nel mio pensiero e nelle mie relazioni.”

Rapporti con l’Ucraina nell’alternarsi degli eventi degli ultimi mesi? “Sì, sempre. Nonostante la propaganda dell’una e dell’altra parte. Da parte mia, molte telefonate. Dialogo e una grande disponibilità di ascolto rivolta a chi manifesta opinioni diverse oppure esprime disagio. Parliamo. Non scrivo messaggi a chi descrive preoccupazioni o livore: telefono, ascolto, parlo. Mi capita di farlo con amici ucraini e con amici russi.”

Un confine sottile tra le due lingue, tra russo e ucraino. Oppure una linea netta? Sorride, veste l’azzurro degli occhi con le lenti degli occhiali. Arrotola le dita intorno a un ciondolo che rappresenta un atomo di carbonio. “Ho impostato il telefono in lingua inglese, per motivi di lavoro. E in lingua russa. L’ucraino è molto cambiato negli ultimi tempi. L’ucraino è una lingua melodiosa. Da quando vivo in Italia leggo i giornali in russo e in ucraino. Non si dissolve nella mente delle persone la forza del laboratorio multiculturale sovietico.”  

Svetalana Voronova Erokhina dal 2012 fino al 2022 è stata Presidente del Centro Interculturale di Parma. Ha ceduto il passo a un sostituto proveniente dalla riva sud del Mediterraneo. In nome dell’alternanza culturale e del dialogo tra i popoli. In osservanza dell’idealità sovietica.

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(Kazan)

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