Parma, 7 gennaio 2024 - L’est è il punto cardinale del possibile.
A est sorge il sole.
Casco da ciclista, oppure da operaio edile. Una pennellata di giallo su un caschetto di riccioli castani e morbidi. E occhi che parlano.
Adele Mazzola è una testimone significativa dell’intenso tratto di Storia della Jugoslavia. Che ha camminato in fretta tra curve a gomito e scossoni da montagne russe. Palcoscenico di una integrazione ad alto voltaggio di diversità. Diventato alveo di un conflitto difficile da codificare se non attraverso la lente dell’inquietudine umana.
Quella della Jugoslavia è un’altra storia.
Emiliana di origine, laurea in lettere classiche presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna: una competenza linguistica ad ampio spettro, in lingue europee occidentali e orientali, le ha permesso di lavorare e vivere sul crinale di diverse culture.
“Ho visto due mondi. Sono una persona fortunata”, commenta mentre aggancia il casco prima di pedalare via dal flusso di memoria di un pomeriggio invernale.
“Appartengo alla generazione del Sessantotto. E proprio in quell’anno noi studenti dell’Università di Bologna ci siamo diretti ad occupare la Biennale di Venezia. Era la Biennale della borghesia. Così si diceva. Si fantasticava che sulle acque dei Giardini fosse parcheggiata la United States Sixth Fleet (la sesta flotta della United States Navy, stanziata principalmente nel Mediterraneo ma operativa anche nell’Atlantico occidentale, ndr)”, nel raccontare ritorna ad essere la studentessa bolognese. Un cordone impenetrabile di polizia, fuori. Non per la giovane studiosa. “Avevo grande desiderio di vedere. Ho fatto un buco nel cordone e sono scivolata dentro. L’unico padiglione che aveva una vita era quello della Jugoslavia. Dove ho incontrato – ricorda - uno storico dell’arte di Belgrado e uno scultore di Zagabria. Stavano traducendo manifesti artistici in francese, ma la loro lingua non era così raffinata quanto importante il messaggio da tradurre. Mi sono offerta di aiutare nella traduzione”.
Un artista e un intellettuale: Croazia e Serbia, anno 1968. “Era la Jugoslavia in un tempo di dialogo interculturale. Le Repubbliche erano tutte rappresentate. Lingue e culture coesistevano in continuo dialogo. Le appartenenze e le diverse ispirazioni culturali e linguistiche erano valorizzate e si alternavano nella rappresentazione di un Paese composito e caleidoscopico”, chiosa.
La studentessa rompe il gioco dell’occupazione, entra alla Biennale. L’intellettuale serbo accetta la mediazione linguistica. Gli uccelli del caso si erano posati su di loro, direbbe Kundera: “Io e questo uomo di Belgrado ci siamo innamorati. E così è cominciata la mia vita a Belgrado”: è l’incipit di un personale tratto di tempo che arriva fino al duemila e diciassette.
Tra la conoscenza e l’inizio della vita professionale a Belgrado, andate e ritorni via ferrovia. Gli esami universitari non sono finiti. Graduale, il trasferimento. Profondo, il processo in inclusione culturale. Reso agile dall’ambiente sociale di accoglienza: “un gruppo di intellettuali di provenienze diverse. L’interazione fra lingue e culture era la quotidianità. Ero accettata, accolta, capita, coccolata. Era un mondo già pronto per me. Io ero attesa. Mentre la mia famiglia, a Parma, non vedeva bene le andate e i ritorni. Mio padre sapeva di non essere ascoltato. Ma credeva fosse meglio io scegliessi la mia strada con la sua approvazione”.
Tra Parma e Belgrado, una Trieste al capolinea di mondi possibili.
“Era un grande teatro, la stazione di Trieste. C’erano i migranti di una giornata che andavano a vendere e a comprare. Dalla Jugoslavia portavano cose che potevano interessare gli italiani. E acquistavano vestiti. Se li infilavano, uno sopra l’altro. Un maglione a coprire una fila di magliette, un cappotto sull’altro. Per poi rivenderli oltre confine. I doganieri vedevano.”
Una migrazione dalla faccia giovane? “Persone di mezz’età, con responsabilità di famiglia. Mezz’età in questo scorcio di storia europea significava: trentacinque, quaranta anni. Non ancora nel mezzo del cammino della vita.”
Altri ricordi triestini? “Il cambio: lira contro dinari, la valuta corrente in tutta la Jugoslavia di allora. Poche lire contro tante banconote. Voleva dire avere la possibilità di fare cose, spostarsi sul territorio, acquistare libri e musica e rendere colorata la vita.”
In un Paese di grande potenzialità naturalistica e culturale, sulla costa di un mare protagonista, nello spirito profondo del grande spazio jugoslavo, fino alle Portile de Fier (le Porte di Ferro, ndr), confine ultimo tra Serbia e Romania. Diversità e migrazione, come motore di un perenne dialogo tra culture e lingue diverse. “Sul treno c’era tutto e c’erano tutti. Il Paese era un campione di minoranze. Penso alla Voivodina: slovacchi, rumeni, albanesi, ruteni. Ognuno aveva la propria chiesa, il proprio colore delle case. Proprio nella Voivodina sono nati i naif della Jugoslavia.”
Lavoro e vita privata, a Belgrado: assunta presso l’Istituto Italiano di Cultura, prima come bibliotecaria e addetta alla rassegna stampa, quindi come reggente. Grande impegno nell’organizzazione di eventi culturali, mostre, convegni, iniziative cinematografiche, pubblicazioni di libri. Il lavoro di Adele Mazzola a Belgrado è un esclusivo biglietto da visita per l’Ambasciata italiana e per gli ambasciatori. Che lei ricorda, uno per uno, nome e cognome, per identità culturale, per peculiarità di analisi e spirito critico rispetto ai fatti della Storia.
La conoscenza della lingua, la curiosità per il Paese di accoglienza, il forte intreccio sociale, la generosità professionale incardinata su costante curiosità culturale e attivismo: sono questi elementi a trasformare la migrazione dell’intervistata in esperienza sociale con riverbero sull’ambiente professionale jugoslavo e su quello emiliano.
Non dimentica, Adele Mazzola, la provenienza culturale e territoriale. In Italia ritorna, cambiata seppure sempre lei. Mantiene le relazioni sociali, possibili tessere di un nuovo e ricomposto mosaico. A Parma rientra in occasione di ogni tornata elettorale.
E riprende il filo delle relazioni di senso.
Nell’ordine delle cose, incontrare gente speciale.
Come Franco Basaglia, eponimo della legge 180 e artefice della chiusura dei manicomi in Italia. Come Mario Tommasini, innovatore con grande capacità di lettura delle dinamiche sociali, amministratore intellettualmente coraggioso e unico. Tommasini e Basaglia, insieme, hanno chiuso il manicomio di Colorno. Franco Basaglia e Mario Tommasini: due grandi uomini del Novecento italiano. Complementari e in alternanza: l’uno braccio operativo e mente per l’altro e dell’altro.
Nel mese di Aprile del 1979, insieme prendono parte al convegno dedicato ai “Movimenti sociali degli anni Settanta in Europa”. Con loro sono presenti al ciclo di convegni: Felix Guattari, Luciana Castellina, Lucio Magri.
Mario Tommasini si mostra preoccupato per la presenza massiccia di intervenuti, provenienti da diverse città europee. Ci tiene molto a comunicare in modo chiaro e forte il suo messaggio sociale. Parla in italiano. Chiede aiuto ad Adele Mazzola. “Il mio suggerimento: frasi brevi, cadenzate. Con un respiro silenzioso tra una frase e l’altra. Per aiutare gli interpreti a fare bene il loro lavoro. E per garantire efficacia all’importante messaggio di riscatto sociale e al racconto dell’esperienza italiana e, orgogliosamente, parmense e triestina. Nonostante la preoccupazione, a Mario sfugge il suo tratto di leggera simpatia. Che fece sorridere sia me che Basaglia. Devi guardarmi, Adele. Così mi dai il tempo, mi dici quando devo fermarmi e quando devo andare avanti. Mi disse. Ed io così ho fatto. Alla fine della sua relazione, mi avvicinai a lui e gli chiesi di dirmi come era andata. Non è stata una buona idea chiederti di guardarmi e di darmi il tempo. Ho fatto fatica. Avevo dimenticato di essere barlùz (strabico, ndr).” Scuote i riccioli, Adele Mazzola. E sorride. Alla memoria si affaccia il ricordo della serata dopo il convegno, quando Basaglia dice di avere capito il motivo del trasferimento a Belgrado di quella giovane intellettuale italiana. “Una ragazza così non poteva vivere a Parma. Lo vedo bene come vestono i parmigiani, quando li incontro in aereo”, abbozza a un concorde e divertito Mario Tommasini, riferendosi alla ricerca maniacale di una grigia e monotona eleganza.
Dal 1979 in poi, si alternano iniziative culturali ed eventi, proposti e organizzati dall’Istituto Italiano di Cultura. Nel 1990, un passaggio professionale accompagna la studiosa al ruolo di reggente dell’Istituto Italiano di Cultura a Belgrado. Lo spessore culturale, la conoscenza della lingua, curiosità e generosità professionale hanno scavato le fossette di lancio per il decollo. Un riconoscimento dovuto.
A Belgrado scorrono pagine di vita intensa. Fino ai primi fuochi del conflitto. Arginato sulla riva est dell’Adriatico, nonostante la presenza dei media. “Sulla costa italiana dell’Adriatico si prende il sole, su quella jugoslava le bombe. Questa battuta era di un amico jugoslavo.”, ricorda Adele Mazzola.
Da qui, fino agli ultimi anni del secondo millennio, un fuoco di fila di eventi bellici. Difficili da leggere con lucidità da un punto di osservazione esterno. Carichi di dolore da vivere dall’altra parte del confine. Il laboratorio di un melting pot di lungo corso si mostrava sbrecciato, fino alle conseguenze belliche.
Vita professionale e personale scorrono fino al sorgere e all’esplosione del conflitto.
“La guerra ha portato rumore, morte e scompiglio nella vita del Paese. Le bombe e il silenzio sordo dell’attesa e le sanzioni imposte al Paese che comprendevano anche qualsiasi tipo di collaborazione culturale. Il divieto di ricevere riviste e quotidiani aveva reso difficile la vita di tutti i giorni, rallentando pericolosamente fino a fermare gran parte della vita culturale e intellettuale. Tra le gravi conseguenze del conflitto – continua Mazzola – la grande diffusione di malattie generate dall’utilizzo dell’uranio impoverito, patologie fino ad allora considerate rare oppure sconosciute. L’uranio impoverito aveva avvelenato la terra di un Paese prevalentemente agricolo. E reso impossibile il ciclo della vita imponendo dei ritmi e tattiche di sopravvivenza. Una nuova edizione di mercato nero proponeva abbigliamento e biancheria a richiesta e prodotti commestibili.” Sbiadivano i colori del cosmopolitismo e della convivenza inter-culturale. Che ha caratterizzato la Jugoslavia per un lungo tratto di Storia. “Una tragedia. Che ha scosso le etnie, mettendole una contro l’altra. In una catena di odio e chiusure reciproche che aveva favorito divorzi, indotti spesso dalle famiglie d’origine che consideravano fascisti i croati, servitori dell’Austria gli sloveni e i serbi turchi come persone senza cultura.”
È datata 1997 la decisione italiana a favore dell’intervento armato nella cornice del conflitto in corso.
“Nello stesso anno e per protesta rispetto a questa posizione non condivisa e contraria alla Costituzione italiana”, Adele Mazzola rassegna le dimissioni dall’incarico di reggente dell’Istituto. Una presa di posizione decisa e di ispirazione ideale. Che non le impedisce di continuare a vivere nel Paese. E di organizzare altre iniziative culturali e sociali. Dal 2000 fino al limitare degli anni Venti del terzo millennio la studiosa collabora con la cattedra di Italianistica presso la Facoltà di Filologia di Belgrado. Nella cornice della nuova responsabilità professionale: pubblicazioni, iniziative culturali, spunti creativi.
Adele Mazzola altro non sa fare che cultura.
La sua ideale e netta presa di posizione non interrompe la passione.
Lei stessa diventa un relè di ispirazione culturale tra le due rive dell’Adriatico: con l’organizzazione delle mostre dedicate alle opere di Milena Pavlovic Barilli, come direttrice responsabile cura la pubblicazione a Belgrado di Limesplus, rivista di geopolitica, nella produzione dello spettacolo “Le ultime lune” di Furio Bordon, come responsabile della comunicazione nel vasto programma dedicato alle “Politiche minorili in Serbia” della Regione Emilia Romagna e del Ministero per gli Affari Esteri. È lei a curare la presentazione dei film di Emir Kusturica della durata di trentotto giorni, quanti furono i giorni di bombardamenti su Belgrado.
Tenacia, costanza e partecipazione emotiva anticipano nei fatti l’intuizione di Tim Judah, giornalista dell’Economist autore del neologismo “Jugosfera”. Che prende le mosse da un dato concreto: la cooperazione economica tra i Paesi della Jusgoslavia non solo è necessaria ma è già in atto.
Adele Mazzola anticipa la Jugosfera della cultura. Garantisce continuità all’innovativo laboratorio sociale. Al quale ha dedicato e dedica emozione ed energia, nell’impegno quotidiano di studiosa e intellettuale. Fino al lavoro attuale e quotidiano come docente di lingua italiana nei percorsi di inclusione sociale dedicati alle persone migranti.
La parola non dimentica. E la Storia non tradisce il futuro.
(Belgrado)
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(Link rubrica: lavoro migrante ” https://www.gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=lavoro%20migrante&ordering=newest&searchphrase=exact&limit=30