Sole e rumore, voci alte e mani unte di caldo aspettano la lavoratrice del nord in missione al sud. Un anno di lavoro per sollevare le sorti di una società che dà segni di cedimento. E’ spaesata di fronte ai tentacoli delle piovre in attesa all’aeroporto. Indifesa. Si è sentita così. E non se lo aspettava. Una trasferta di lusso, la sua.
Le piovre dell’aeroporto sono certe di saperla manipolare.
E’ inesperta, giovane. E’ del nord. E’ donna.
Si aspettano denaro a pioggia per sanare vecchie ruggini fra dirigenti. La loro salvezza viene prima della filantropia. Deve essere indimenticabile per lei, la prima sera al sud. Ma lei declina l’invito al cameratismo. Strizza gli occhi, sotto i cerchietti degli occhiali e si ritira nella nuova casa a organizzare il tempo futuro e a prendere le misure della fauna locale.
Il pensiero come fosse un micrometro.
L’organizzazione è un’impresa con diversi stabilimenti sul territorio nazionale. Riceve fondi pubblici e privati. Ha obiettivi nobili: dare lavoro alla gente e fare profitto. Coinvolge centinaia di lavoratori, tra passacarte, dirigenti, impiegati di concetto e operatori on the road, oltre ai facchini. Obiettivi da raggiungere: primo fra tutti: il profitto. Questo è uno dei motivi a condurla al sud. A lei il compito di esplorare i buchi neri non identificabili dal lontano nord.
Primo giorno al nuovo lavoro. In anticipo e curiosa. Un via vai frettoloso, all’ingresso dell’edificio. Tutti a falcata lunga e svelta. Seduti, nell’open space: passacarte e impiegati di concetto. Computer in fase di accensione, brusio fra i presenti. Passa inosservata, lei. Va verso la zona ristoro al limitare della grande stanza tutto plexiglas e legno chiaro.
L’ascensore si arresta al piano. Passi lenti e pesanti ed entra uno di quelli della sera prima. Alto, dinoccolato, indossa gli occhiali da sole anche in ufficio. Prima di entrare sferra un pugno sul muro. Un pugno falso per fare rumore. Il secondo ad entrare ha qualche anno meno di lui. Fisico meno palestrato del primo, occhiali piccoli, sedere basso, parlantina fluente. E’ l’intellettuale della squadra. Ha scritto libri su Machiavelli, al quale dice di ispirarsi nella vita e nel lavoro. Cita il Duce. Conosce a memoria le frasi più celebri. Il Duce è stato il primo grande comunicatore di questo Paese, ripete come un mantra. Parla a voce alta, sempre. Contrariamente al lungo, che parla a voce bassa quasi a non volersi fare sentire. O per utilizzare la voce come strumento di potere. Il terzo è vecchio. Trema, alla parte destra del corpo. Ha la faccia aperta, gli occhi buoni. Entra insieme ai due e dai due prende i comandi. Li teme. Il lungo è aggressivo e potrebbe ferire fisicamente. Il culo basso ferisce con le parole: è la sua arma più affilata con i dipendenti. Le è bastato osservarli entrare, una sola volta, per capire l’intreccio di paure e di potere. Il lungo teme di rimanere senza un lavoro. Figlio di un generale dismesso, sa di essere solo un corpo in movimento. L’intellettuale è pieno di sé e convinto di poterla raccontare a tutti gli dei dell’Olimpo. Il vecchio è debole e vecchio. E teme di soccombere al confronto con la moglie, un avvocato di grido. La banda si appoggia a tre donne: una psicologa con abiti da puerpera per la selezione del personale; una segretaria di direzione con seno a balconata su gambette contornate da gonnellini plissettati; una giornalista per l’organizzazione degli eventi.
Gli eventi sono una delle fissazioni del lungo. L’intellettuale detta le cadenze e decide i luoghi.
Il gruppo oggi decide, alla presenza della nordica, dove andrà in scena il prossimo evento.
Kick off a Salò, lago di Garda. L’ultima illusione di Mussolini. Una promessa non mantenuta.
A Salò arrivano in tanti: passacarte di campagna e impiegati di città; quadri dalla pancetta da litro di birra serale; capi intermedi. E’ su di loro che il lungo e l’intellettuale agiscono per indurre competizione a somma zero. Presenti anche operai. Gratificati per l’invito: le donne fresche di parrucchiera e di estetista, con abiti da sfilata di moda. E gli uomini insacchettati dentro giacche costose che non indosseranno mai più, sopracciglia a volo d’uccello e pizzetti improbabili.
E’ un popolo di etnie e lingue miste: qui, ci sono quelli che contano.
L’intellettuale presenta la nordica. Lei scivola sull’italiano. Lui si complimenta per la lingua degna di Dante Alighieri. Lei arrossisce e ritorna a sedere.
Ridono tutti. Anche chi non ha capito. Qualcuno batte i piedi sul pavimento. L’ intellettuale ringrazia la nordica per la sua presenza. Gli fa eco il lungo: da noi potrà imparare una efficiente etica del lavoro.
L’intellettuale comincia con la sua comunicazione. Proietta i numeri degli stabilimenti. Un responsabile alla volta viene invitato sul palco. Comincia da quelli che non hanno raggiunto gli obiettivi.
Al primo chiede di inginocchiarsi su una fila di biro Bic stese sul pavimento e di spiegare da quella posizione il motivo dei numeri bassi. L’uomo ha le gambe corte e una pancia che lo spinge in avanti. Non sta fermo sulle penne che rotolano via. Con una mano tiene il microfono e con l’altra si appoggia a terra. Il lungo lo stende con una ginocchiata e lo rimanda a sedere tra il pubblico.
Onde di risate riempiono la sala. La claque del consenso è una macchina da guerra.
Uno dopo l’altro, i dirigenti degli stabilimenti in perdita vengono umiliati.
Alcuni gruppi sono feroci. Vogliono uccidere i perdenti. Con le mani e con le parole.
Affondano il coltello nella pancia del toro morente.
Alla presentazione dei numeri negativi dell’ultimo magazzino, l’intellettuale intona un coro da stadio al microfono chiamando per nome il direttore di stabilimento al ritmo di fal-li-to, fal-li-to. Lo chiama al microfono. L’uomo deve andare sul palco e urlare al microfono il suo nome e poi aggiungere: fal-li-to, fal-li-to. L’intellettuale gli dà il la.
L’uomo sfila nel corridoio centrale del salone tra le risate e le pacche sulla testa.
Si assesta diritto a testa alta. Davanti a tutti. Prende il microfono.
Si ferma. Nel silenzio senza tempo di un lampo di incredula lucidità. Guarda l’intellettuale, punta gli occhi sul lungo, lambisce con lo sguardo distrattamente il vecchio.
Apre il microfono. E’ calmo. Respira profondamente.
Guarda gli operai presenti, uno per uno.
Il silenzio si fa ghiaccio.
E dura per l’interminato spazio della vergogna.
Chiude il microfono e ritorna a sedere.
L’intellettuale propone una pausa. Non è abituato al silenzio.
Nei corridoi del caffè la nordica raccoglie informazioni.
Il reclutamento viene fatto dagli operai. Chiamano quelli del loro Paese di origine. Meglio se non capiscono la lingua. Si fa un contratto di lavoro, ma non lo si consegna: la durata, lo stipendio, il periodo di prova: a loro non serve avere queste informazioni perché non le capiscono. E i kapò possono farli lavorare come vogliono, pagarli quanto vogliono e quando vogliono.
Loro devono lavorare. A loro servono i soldi. Per ogni operaio che lavora il compaesano riceve un premio in denaro. E’ lui che consegna le somme in contanti.
La nordica pensa agli abbracci sudati al suo arrivo.
Scivolosi come la vigliaccheria. Chiassosi come tutto ciò che succede a Salò.
Le fabbriche che funzionano sono quelle che pagano poco i lavoratori oppure che non pagano.
I lavoratori stranieri lavorano a testa bassa, prendono i contanti una volta al mese e li mandano a casa.
Il lavoro è speranza di futuro.
Il lavoro è lavoro se arrivano soldi. E qui arrivano, ogni mese. Arrivano e basta. Senza la fatica di imparare la lingua.
Dalla povertà si scivola nella schiavitù. Illusi di avere dato uno schiaffo alla desolazione.
I soldi oggi ci sono. Non importa se giusti.
La povertà fagocita le briciole dell’Occidente. E per farlo inquina il lavoro.
Povertà di menti più che di cose. E’ quello che non si dice. Che i lavoratori non combattono più.
Un nuovo colonialismo ha fatto breccia nella Storia.
La solidarietà al ribasso diventa il marchio indelebile dei lavoratori.
L’azienda contratta con il kapò, non con loro. Marionette con la testa ripiegata e lo sguardo rivolto in basso.
La nordica pensa con l’onestà di chi deve fare bene il proprio mestiere. Ascolta senza respirare.
La presentazione degli stabilimenti con segno positivo è un tripudio di applausi e di cori inneggianti la vittoria. L’intellettuale fa molta scena e dice poco.
E’ incoronato re uno dei migliori. Lui recluta direttamente. Si dice accetti le candidature ogni domenica, all’uscita dalla chiesa. Vengono da due, tre Paesi dell’Africa subsahariana. Il passaparola è un mezzo potente. Lui scrive i numeri di telefono, il nome e il Paese di provenienza. Lo fa per aiutare i bisognosi. Il buonismo porta lavoratori. Il buonismo al potere rende tutto possibile.
Il buonismo vince. La platea di kapò si infervora in un applauso senza fine.
Dopo Salò, la nordica visita tutti gli stabilimenti, a partire da quelli virtuosi.
L’ultima notte di Martine al sud è tempestata dagli incubi. Le facce del lungo, del Duce, dell’intellettuale, del vecchio si rincorrono in una girandola senza fine.
In sottofondo: il popolo in rivolta. E’ sporco, è stanco.
Rivendica la dignità al potere.
Milano in un lampo, prima di Almere. E’ nebbiosa e bellissima.
Nessuno l’accompagna al volo di ritorno.
Il lungo è ritornato a vendere barche, poi è caduto in depressione. L’intellettuale scrive libri quando gli attacchi di panico gli lasciano libero il respiro.
Il vecchio è rimasto a fare ciò che sa fare con l’uomo silenzioso al comando.
Il potere del silenzio è a rilascio lento.
(Immagine: Fiumana, 1895.1896, Giuseppe Pellizza da Volpedo)
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