Di Manuela Fiorini 23 maggio 2020 - La domenica per Rodolfo Lapidario, impresario di pompe funebri, era il giorno libero. Non che avesse molto da fare, dal momento che non si era mai sposato e non aveva figli, perciò lo trascorreva dedicandosi alla lettura, oppure, con la bella stagione, passeggiando nel parco cittadino. A mano che non intervenisse qualche spirito di trapassato ad avanzare le proprie richieste, dal momento che Lapidario era nato con un dono molto speciale: poteva vedere le anime dei defunti. Quella domenica sembrava essere cominciata in maniera piuttosto tranquilla.
Mentre camminava lento lungo i viali del parco, circondate da aiuole verdi e all’ombra dei cipressi, notò che i tronchi degli alberi, le panchine e persino i cestini dei rifiuti erano tappezzati di volantini. Si avvicinò per leggerne uno: “Perso Peppino, merlo indiano di dieci anni”. Seguiva una breve descrizione e il numero di telefono della proprietaria, che doveva essere disperata.
Non sarebbe stato facile ritrovare il pennuto. Un cane e un gatto si potevano in qualche modo afferrare, ma per acchiappare un merlo indiano ci volevano le ali, oppure tanta astuzia. Chissà, forse il pennuto si era conquistato la libertà e non aveva alcuna intenzione di tornare in gabbia. Oppure, forse, era già passato a miglior vita, afferrato da qualche gatto. Lapidario finì il suo giro sperando nella migliore conclusione della vicenda, poi, prima di tornare a casa, si fermò in una pizzeria da asporto per ordinare una pizza per cena. Salì nel suo appartamento, situato proprio sopra la sua agenzia di pompe funebri. Sistemò il tavolino sul piccolo terrazzo, lo allestì con una tovaglietta usa e getta, stappò una bottiglia di vino rosso e si mise a mangiare. Era già a metà della pizza quando si accorse che qualcuno lo stava osservando. Strano, non aveva percepito la solita folata di aria gelida che gli preannunciava la visita dello spirito di un defunto. Eppure, si sentiva addosso lo sguardo di qualcuno. Ne era certo, per queste cose aveva un certo intuito. Si guardò attorno.
Non c’era anima viva, e nemmeno morta. Alzò lo sguardo sulla grondaia e allora lo vide: un merlo indiano lo stava osservando con interesse.
“Ci scommetto quello che vuoi che sei quel Peppino che stanno cercando…”, disse ad alta voce. “E scommetto anche che hai fame e stai puntando la mia pizza. Se sei abbastanza coraggioso, tieni, te ne metto qualche pezzetto qui sul davanzale…”.
Lapidario spezzettò un po’ della crosta. L’uccello lo stava ancora osservando, poi, con sicurezza, volò sul davanzale e in un batter d’occhio spazzolò le briciole. Infine, senza fare troppi complimenti, si spostò sullo schienale della sedia vuota di fronte a Lapidario.
“Ne vuoi ancora? Certo che devi essere un merlo intelligente…”.
Gli occhi scuri del volatile si piantarono fissi in quelli di Lapidario.
“Ho l’impressione che tu non voglia solo la pizza, o mi sbaglio?”.
C’era qualcosa di molto strano in quell’uccello. Sembrava che capisse ogni sua parola, persino che percepisse i suoi pensieri e le sue emozioni. Probabilmente, se era stato addomesticato per dieci anni, aveva imparato a interagire con gli umani. Magari, gli era stata insegnata anche qualche parola. I merli indiani sono molto bravi a riprodurre il suono della voce umana, forse anche più dei pappagalli.
“Allora, vuoi darmene un altro pezzo, prima che diventi fredda?”, disse l’uccello.
Lapidario non credeva alle sue orecchie.
“Che cosa hai detto?!”.
Il merlo fischiò forte.
“Ti ho chiesto se hai intenzione di darmi un altro pezzo di quella dannata pizza o se devo andare a cercare qualcos’altro per cena altrove…”.
Lapidario era sbigottito. Sapeva della capacità dei merli indiani di pronunciare qualche parola, ma questo esemplare non solo era in grado di formulare una frase intera, ma anche di capirne il senso e di rispondere a tono.
“Andiamo, umano. Mi hanno detto che tu sei in grado di vedere le anime…non mi dire che non riesci a vedere me”.
“Io…scusa, ma vedo solo un merlo indiano…”.
“Aguzza l’ingegno, umano…che cosa ti suggerisce la tua intelligenza?”, gli domandò il merlo, mentre, senza fare tanti complimenti, si era fiondato sulla pizza e la stava becchettando di buona lena. “Non fermarti alle apparenze…”.
“Sei quello sui volantini?”, chiese Lapidario.
“Sì, sono io. E sappi che se in questa vita mi sono state concesse le ali, le userò. Non ho intenzione di farmi catturare né da te, né da nessun altro. Non tornerò nella gabbia in casa di quella vecchia pazza. Ho buttato via tutta questa vita, ma tant’è…evidentemente avevo qualcosa da espiare. E l’ho accettato di buon grado…”.
Il merlo aveva pronunciato una frase sibillina. Lapidario capì.
“Hai l’aspetto di un merlo, ma l’anima di un uomo, vero?”.
“Vedo che ci sei attivato…complimenti per la sagacia…”.
Il volatile finì la pizza ed emise un fischio di soddisfazione. Lapidario, invece, aveva perso l’appetito, non gli era mai capitato un caso del genere.
“Comunque, sono Ajar Khan. Nella mia penultima vita, quella umana, sono stato un ladro e un contrabbandiere. Avrei dovuto finire i miei giorni in prigione, ma non sono mai riusciti a prendermi. Sono fuggito in Italia quando avevo poco più di trent’anni. E da allora, e fino alla fine dei miei giorni, sono vissuto qui. Pensavo che quella sarebbe stata la mia ultima vita, invece mi sono reincarnato in un merlo indiano…e ho trascorso quasi tutta questa esistenza in una gabbia, quella galera che nella vita precedente ho sempre evitato”.
“Sembra quasi una punizione…”.
“E la è, infatti…”, commentò il merlo. “Sento che anche questa vita sta per concludersi, ma prima, volevo godermela un po’. Spero di non doverne vivere un’altra nella pelle di qualche altro animale”.
“Non ne so molto di reincarnazione”, gli rispose Lapidario, “ma non penso che nella vita da merlo tu abbia potuto commettere chissà quali delitti”.
“Di solito, non si ha memoria delle esistenze precedenti. Invece, io mi ricordo benissimo la mia vita da umano e ho continuato a essere uomo anche dentro al corpo di un merlo”, disse l’uccello.
“In che cosa posso aiutarti? Di solito il mio dono mi consente di soddisfare le ultime richieste dei defunti, oppure di aiutarli a passare a uno stadio successivo dell’evoluzione dell’anima…ma tu non sei ancora morto. Sei il caso più strano che mi sia capitato…”.
Il merlo storse la testa.
“Se davvero vuoi darmi il tuo aiuto, offrimi ospitalità e del buon cibo. Per dieci lunghi anni ho avuto il palato da umano e il corpo da merlo. Non sai che schifezze mi è toccato ingurgitare! Ma anche questo ha fatto parte della mia punizione, suppongo”.
“Certo, vieni pure quando vuoi…”, gli rispose Lapidario.
“E c’è anche un’altra cosa…quando verrà la fine di questa vita, brucia le mie spoglie terrene, in modo che la mia anima possa essere libera. Vorrei un funerale indù…”.
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Nelle settimane successive, Rodolfo Lapidario si trovò a dividere la sua casa e il suo desco con l’impertinente e ciarliero volatile, che si rimpinzava di qualsiasi leccornia, eccetto che di carne.
“Potrebbe essere stata tua madre, questa bistecca, in una vita precedente…”, gli disse una sera, guardando sdegnato la sua cotoletta. Peppino, anzi, Ajar, come voleva essere chiamato, adorava però i dolci, davanti ai quali non si tirava mai indietro. Il merlo andava e veniva a suo gradimento, anche se la sera gli piaceva entrare in casa e accoccolarsi in un piccolo nido di vecchi vestiti che Lapidario gli aveva allestito nello studio.
Un giorno, Rodolfo Lapidario trovò sulla scrivania del suo ufficio un orecchino d’oro.
“E questo che cos’è?”, si chiese.
Il merlo indiano entrò dalla finestra fischiando.
“Un mio regalo per te, visto che non posso ripagarti per quello che stai facendo per me…E sei stato di parola, non mi hai tradito. Quella vecchia megera prima o poi si rassegnerà e comprerà un canarino…”.
“Dove hai preso questo orecchino?”.
“Dall’orecchio di una ragazza davanti al teatro, ieri sera…”.
“L’hai rubato?”
“Tanto, ne aveva un altro uguale…”.
“Non so bene come funzioni…ma data la tua vita attuale, e la precedente, non credo ti convenga continuare con i furti”.
Il merlo parve riflettere.
“Forse hai ragione…”.
“Allora, domani lo porterò all’Ufficio Oggetti Smarriti, con un po’ di fortuna lo restituiremo alla legittima proprietaria”.
****
I mesi passarono. Rodolfo Lapidario si era abituato alla presenza di Ajar. Tanto più che il merlo interagiva anche con le anime dei defunti che si presentavano con rimostranze e lamentele. Una sera, Lapidario lo trovò nel suo nido, quasi immobile.
“Che hai? Non avrai mangiato troppo, per caso…”, gli domandò senza nascondere una sfumatura di apprensione.
“Penso che il mio tempo in questa vita sia finito, amico mio. Grazie di tutto. Ricordati della tua promessa”. Poi, il merlo chiuse gli occhi e si addormentò.
Il mattino dopo, Rodolfo Lapidario lo trovò ormai freddo. Non riuscì a trattenere le lacrime: quel pennuto irriverente gli sarebbe mancato. Non lo seppellì, ma quella sera, come Ajar gli aveva chiesto, allestì una piccola pira nel giardino, sotto un grande albero in fiore. Accese il fuoco, che assumeva colori e forme di rara bellezza, mentre il fumo che saliva verso il cielo sembrava portare altrove l’anima di quello che l’impresario di pompe funebri poteva chiamare, senza essere in difetto, “amico”.
Il fuoco riscaldava l’aria, ma, a un tratto, Lapidario sentì un brivido. Quella voce l’avrebbe riconosciuta tra mille. Si voltò e vide un giovane dalla pelle scura, ma dagli incredibili occhi verdi.
“Ajar…”
“In spirito…”, gli sorrise lui. “Con l’aspetto dei miei vent’anni”.
“Decisamente migliore di quello di un merlo indiano”, rispose Lapidario emozionato.
L’anima gli regalò un sorriso.
“Grazie di tutto, amico mio, sei stato di parola anche questa volta…Sei una persona buona e generosa, ho ragione di credere che questa sarà la tua ultima vita”.
Poi, lo spirito scomparve nel fuoco e nel vento fresco della sera, salutando per l’ultima volta Rodolfo Lapidario con un ultimo lungo fischio.
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