La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, ratificata dal nostro Paese nel 1994, prevede, nell'art. 19, paragrafo 2, che tra le attività le quali possono costituire passaggio non inoffensivo vi è anche il carico o lo scarico di persone in violazione della normativa vigente nello Stato costiero in materia di immigrazione. Pertanto, se sussiste un pericolo in questo senso l'Italia ha la facoltà di impedire l'accesso di una nave nelle proprie acque territoriali.
La stessa Corte EDU, in relazione al noto caso della Sea Watch 3, se, da una parte, ha richiesto l'obbligo di assistenza per tutti i migranti e il supporto legale per i minori non accompagnati, dall'altro non aveva accolto la richiesta dei ricorrenti ad essere sbarcati, rientrando questo ambito nella piena sovranità italiana.
È indubbio che sussista, in base al diritto internazionale sia consuetudinario, sia pattizio, un obbligo di salvataggio delle persone in mare, ma la Convenzione c.d. SAR del 1979 sul soccorso e la ricerca in mare, integrata dalla Risoluzione MSC. 167(78) del 2004, obbliga lo Stato coinvolto a trovare non il porto più vicino, bensì assicurare un porto sicuro o che tale porto venga indicato.
Il "luogo sicuro" (c.d. place of safety) non necessariamente deve trovarsi in terraferma, potendo essere individuato in un'altra nave o in una struttura (ad esempio una piattaforma petrolifera) sia pure in attesa di una destinazione più duratura e stabile.
Tuttavia, è inconcepibile sia che il regolamento UE n. 604/2013 (c.d.Dublino III), il quale individua lo Stato di primo approdo per la richiesta di asilo politico, non sia ancora stato modificato, gravando l'iter sui Paesi le cui frontiere coincidono con quelle esterne dell'Unione Europea, sia che la tanto decantata solidarietà europea, enfatizzata dopo il fallimentare accordo di Malta del 2019, sia rimasta un mero "flatus vocis" come il Governo dei "patrioti"...