Di Francesca Dallatana Parma, 12 gennaio 2025 - Il lavoro umiliato è l’essenza dello sfruttamento. È la negazione del futuro.
Il lavoro umiliato è il lavoro povero. Di contenuti. Con un riconoscimento retributivo al ribasso. Sottopagati per recitare la parte dei robot.
E’ il lavoro senza regole che trasforma il lavoratore in una macchina fungibile, gettato nel cestino della carta straccia quando non serve più. Identità calpestata.
Impedire l’espressione dei talenti significa inchiodare generazioni a un presente di sorridente e ipocrita soddisfazione. Fine pena mai.
Un libro a presa diretta, un saggio circostanziato che raccoglie e racconta storie di vita e di lavoro ma non si esime dal mettere in fila numeri e cronologia: Non è lavoro, è sfruttamento, edito da Laterza nel 2017.
Marta Fana conduce una articolata descrizione del fenomeno dello sfruttamento lavorativo, finalizzata a promuovere consapevolezza e ad affinare coscienza politica.
Definisce lo sfruttamento lavorativo. Scrive a chiare lettere di che cosa si tratta. E si scopre che gran parte dei lavoratori è coinvolta. Inquinata.
Lavoratori di tutto il mondo unitevi.
Anzi: proletari di tutti i Paesi, unitevi! Il consumo ha impolverato la tensione ideale dei lavoratori all’appartenenza di classe, quindi al diritto di parola di classe.
Classe sociale: un suono vecchio rispetto alle sirene del fast fashion, del fast food, dei co-working. E del formalmente meno noto job-sharing.
Il consumo dà dipendenza. “Toglieteci tutto ma non il consumo”.
Chi sono i lavoratori sfruttati? Marta Fano nella sua cavalcata razionale attraverso le sabbie mobili del lavoro sfruttato contemporaneo restituisce loro identità e mansione e li localizza.
E’ la giovane cassiera di una provincia lombarda che ha firmato un contratto a chiamata senza la clausola della disponibilità retribuita che fa turni estenuanti. Non può sedere alla cassa e non può bere, quindi nasconde l’acqua nel ripiano nascosto e si immerge sotto la superficie di visibilità ogni quattro o cinque clienti. Le infezioni urinarie: una antipatica compagnia conseguenza della sostituzione a scoppio ritardato per la pausa-bagno. Alla fine del turno la lavoratrice deve pulire il bagno.
Non è una lavoratrice culturalmente debole, la cassiera. Ha conseguito una laurea e ha dimostrato disponibilità al lavoro a pergamena raggiunta.
E’ il dottore in ingegneria che alterna la consegna serale della pizza a un lavoro in un supermercato: non può permettersi di abbattere il costo dell’affitto vivendo oltre l’anello del centro città perché dopo le ventuno gli autobus non gli permetterebbero il ritorno a casa. E il suo turno di ciclista-consegnatario termina alle ore due ante meridiem, cioè alle due di notte.
E’ il lavoratore immigrato finito nelle spirali della logistica post-taylorista, che vive in una casa in affitto di proprietà del datore di lavoro. L’affitto è detratto dalla retribuzione mensile. Per il lavoratore è gioco-forza accettare le condizioni lavorative imposte, accettabili oppure indecorose che siano.
Il bisogno è un cappio al collo per questi lavoratori. Il minimo comune denominatore è la disponibilità, spesso obbligo sociale, ad accettare situazioni al limite estremo della legalità.
“Toglieteci tutto ma non il consumo.”
Qualcuno in un magazzino del settore logistico lavora a ritmi sostenuti senza fermarsi per permettere al consumatore di acquistare vestiti a basso prezzo che un altro lavoratore ha prodotto chinato su una macchina da cucire dodici, sedici ore al giorno con una paga ridotta ai minimi termini. Forse è un bambino. Ma l’abito costa davvero molto poco e ha il potere di rendere omogenea e adeguata la rappresentazione sociale dell’acquirente. Che potrebbe essere la cassiera che deve inginocchiarsi sotto la cassa per bere di nascosto. Un circuito vizioso del quale non è scontata la consapevolezza.
Frammentazione e solitudine.
Il consumo fast e alla moda ha frammentato prima di tutto il tempo di lavoro. Gli ha imposto il ritmo della produttività alta e dell’efficienza. Funziona se non ci disperde nei rivoli del pensiero e se si seguono le procedure.
La produzione taylorista ha due conseguenze: la rigidità e l’alienazione del lavoratore. Era così. E’ così.
Accettare il ritmo imposto impedisce le vie di fuga verso altre possibilità di lavoro e di vita, incatenati alla galera dello sfruttamento mascherata da lavoro. L’alienazione abbassa la resa del bozzolato grigio della scatola cranica, motore unico e incontrastato dell’autodeterminazione insieme alle condizioni sociali capitate in sorte alla lotteria della nascita.
L’acquirente della maglietta fast and last fashion non immagina il livore sedato del lavoratore della fabbrica tessile che l’ha prodotto e nemmeno la stanchezza profonda che padroneggia i corpi dei lavoratori della logistica.
Il fast and last fashion illude ed elargisce il finto sorriso di un’ipocrisia sociale. Che vede e vuole tutti giovani e felici.
La solitudine del lavoratore si riverbera in modo diretto sulla richiesta delle tutele, sulla rivendicazione dei diritti. Una musica vecchia in un mondo giovane e sorridente e plasticato. Chiedere il riconoscimento dei diritti significa alzare la voce, articolare un pensiero nella giungla dei tamburi del ritmo frenetico e cadenzato del lavoro.
Lavoro a chiamata e voucher: per non essere choosy, schizzinosi, si accetta il primo lavoro possibile, per decidere da dentro che cosa fare. L’autrice riporta le parole di un Ministro del Lavoro che ha anticipato la cancellazione operativa dell’articolo 18 della legge 300/ 1970, lo Statuto dei lavoratori, firmato dal governo giovane e cool del Presidente del Consiglio Renzi. Da qui il Jobs Act.
On demand.
Essere flessibili significa essere a disposizione a chiamata. E rinunciare al diritto alla fruizione del tempo del non lavoro, quello previsto dai contratti collettivi di lavoro. Che le nuove forme -ormai non tanto nuove- non prevedono.
In attesa di ricevere un messaggio su una applicazione del telefono, il tempo di non lavoro si trasforma nell’ansietà dell’attesa. E annulla il ristoro psicologico del dopo lavoro. Stay tuned. Rimani collegato, attenzione a non perdere la chiamata.
Tempo frammentato e luogo di lavoro che diventa una gabbia per la produzione in serie e al ribasso.
La frammentazione del tempo e la dipendenza dal reddito che sfama il bisogno per molti lavoratori con partita Iva si coniugano alla solitudine fisica del lavoro.
Quando la partita Iva è una condizione obbligata dalla contingenza del mercato impone solitudini non sempre produttive e estraniazione dal gruppo di lavoro di riferimento.
Il co-working teoricamente è un luogo neutro, uno spazio di lavoro condiviso che permette di non aprire un ufficio e che potrebbe aprire la possibilità di scambi tra professionisti di diversi settori e con diverse competenze.
Come il lavoro flessibile, risorsa per chi ha già le tutele di un lavoro subordinato al quale coniugarlo, il co-working presenta un ampio ventaglio di colore: da quelli caldi della relazione costruttiva fra lavoratori a quelli dell’efficienza fino a quelli della solitudine del lavoro.
Il lavoro gratuito.
Partite Iva, lavoro flessibile. E volontariato. Sì, volontariato. Più di una volta il volontariato ha sostituito e sostituisce il lavoro. Marta Fano cita il caso dell’esternalizzazione del servizio bibliotecario da parte di un Ente locale, affidato a un’organizzazione di volontariato. Operatori e operatrici figurano come volontari e vengono pagati con i rimborsi spese. Part time oltre il cinquanta per cento per una retribuzione mensile pari a euro quattrocento.
E ancora: altra esternalizzazione del servizio di pulizie presso un Ateneo italiano, dove si aggiudica la gara di appalto una società che propone un ribasso del quaranta per cento rispetto la precedente. Sulla pelle dei lavoratori. Nessuna rimostranza, neanche dal personale docente.
Il capitolo del volontariato richiederebbe indagini ulteriori e una lente di ingrandimento significativa perché assume caratteristiche peculiari a seconda dei diversi territori e degli ambiti di coinvolgimento. Spesso elemento di inquinamento del mercato del lavoro se non regolamentato adeguatamente. Il volontariato è un fenomeno da osservare con attenzione. Rappresenta una variabile altamente condizionante il mercato del lavoro.
Un nemico è necessario.
Lavoratori on demand e potenziali lavoratori volontari (lavoratori in nero, ndr): nessun veto per le candidature: qualunque appartenenza territoriale e provenienza.
I lavoratori di tutti i Paesi del mondo sono uguali. Anche se non sono uniti. E non sanno l’uno dell’altro. Non c’è tempo per pensare.
In questo frullatore del tempo, lavoratori stanchi e poveri e disoccupati poveri e disperati hanno bisogno di un nemico. Al di fuori dal confine ultimo del loro immaginario sul quale scaricare le responsabilità del dumping sociale imposto dalle leggi del consumo e dell’inquinamento del mercato del lavoro.
Il circo mediatico accentua l’ombra sinistra dell’immigrato extracomunitario, disposto a tutto e arrivato in territorio italiano a rubare il lavoro agli italiani.
Lo sfruttamento lavorativo è democratico. E’ di tutti e per tutti. Coinvolge e riguarda tutti. Quasi una par condicio che livella una pletora di lavoratori dalle identità professionali e provenienze diverse.
Gli immigrati non sono nemici. Identifichiamoli, intanto. Per numero di presenze.
Il numero degli emigrati è maggiore di quello degli immigrati, fa notare l’autrice circostanziando e datando.
Ma il nemico viene da fuori, porta incertezza, parla una lingua diversa e destabilizza. Il nemico cessa di essere nemico quando da immigrato di trasforma in lavoratore produttivo, meglio se sul confine della legalità oppure fuori dalla legalità.
Costa di meno e produce un profitto maggiore. Si tratta di illusorio profitto istantaneo. A livello sistemico un lavoratore fuori dal tracciato legale rappresenta un costo non quantificabile.
Exploitation.
Lo sfruttamento è una patologia sociale. A rischio cronicità. Il primo effetto è l’indebolimento dei lavoratori, dell’annullamento della loro classe sociale di appartenenza. Effetto a lunga gittata è l’apertura di una inquietante forbice tra i pochi che staranno economicamente sempre meglio e la pletora dei lavoratori costretti dal bisogno quotidiano ad accettare il lavoro incatenato.
Lo sfruttamento lavorativo non si consuma solo nei campi di pomodoro a Foggia. Vegeta e vive fra di noi. Non conosce confini nello spazio o di mansione.
Marta Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, Laterza, 2017
(Link rubrica: La Biblioteca del lavoro e lavoro migrante ” https://gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=francesca%20dallatana&searchphrase=all&Itemid=374
https://www.gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=lavoro%20migrante&ordering=newest&searchphrase=exact&limit=30)