I Campi Flegrei hanno un qualcosa di misterioso, non fatico per niente a scorgere la mitologia ogni volta che mi capita di tornarci perché gli odori, l’atmosfera, i vagiti della terra sottostante e la natura che ci circonda, sembrano avere il controllo totale su di una porzione di Mondo che sempre essere una porta di accesso verso un mondo lontano e nascosto.
Da sempre quindi i Campi Flegrei attirano l'attenzione di poeti e letterati: il più importante fu forse Virgilio che vi collocava l'ingresso degli Inferi (nel canto VI dell'Eneide); poi Goethe, giunto a Napoli il 25 febbraio del 1787 in compagnia dell'amico e pittore tedesco Wilhelm Tischbein, che scrisse pagine dense di ammirazione nel suo Viaggio in Italia. Fu la volta poi di Alexandre Dumas che fece altrettanto quando, durante una crociera nel Mediterraneo, finì per incontrare (e accompagnare) Garibaldi tra la Sicilia e Napoli, dalla primavera all’autunno 1860.
Il perché è presto detto: in questa grande caldera quiescente le nubi delle solfatare fanno da sipario alle acque ribollenti delle terme, il biancore delle pozzolane si mischia al giallo del tufo e tutt'intorno è un fiorire di antiche tracce della Roma antica, della mitologia e delle credenze popolari che si sono succedute nei secoli. Sono questi campi, che bruciano e risplendono allo stesso tempo ad ospitare nei loro terreni sabbiosi le piante di piedirosso e falanghina, da tempo oggetto di rivalutazione, dai quali grappoli si ottengono vini di media struttura, freschi e profumati, quasi sempre di pronta beva. Sono vini che rimangono identitari, legati profondamente ad un territorio che non li vede per nessuna ragione lontani da queste zone di elezione e per questo mai scontati nelle loro interpretazioni.
Il Golfo, la Pozzuoli storica, l’Isola ed il monte di Procida, sembrano li fissi ad ammirare questo sviluppo pulsante che rimane vivo davanti a loro e che inesorabilmente brulica e danza davanti ai loro occhi.
(Foto Tempio di Apollo Pozzuoli – da wikipedia)