I vecchi sono pesanti da muovere. La tecnica che insegnano al corso non è sufficiente per spostare ammassi di ossa e cascami di pelle con un peso specifico in aumento ogni giorno. Verso la fine, la vita prende la forma di un corpo fuori controllo. La voce diventa un suono appiccicoso. Tutti chiamano la morte durante la notte. Mentre il ruggito incontrollato della vita si oppone alle braccia degli operatori e si strofina contro seni doloranti.
Sul letto duro, lei è un corpo abbandonato. Quando rientra dal lavoro.
Ha deciso di lavorare nelle case di riposo come operatrice socio sanitaria. Per soldi. Il lavoro è garantito perché in Italia sono tutti vecchi, le hanno detto. Ha studiato l’italiano, ha preso la licenza media e si è iscritta al corso. Aiutare i vecchi non è difficile. E’ sufficiente pensare che anche loro da qualche parte della vita hanno pianto.
Come è successo a lei, quando in Italia la madame le ha dato uno schiaffo a mano aperta e le ha detto: eccolo lì il negozio da parrucchiera, svestiti e cammina. Uno sfregio in piena faccia, dopo averla strattonata fuori dalla macchina e buttata su una strada lucida di pioggia, diritta e lunga fino a Milano. Le auto sfrecciano, le auto inchiodano. Uomini e donne e uomini soli si fermano alla ricerca di corpi da umiliare. Si lavora ogni notte, fine pena mai. Il debito sembra allargarsi a macchia d’olio. Ritornano, mai cancellati, i riti woodoo puntati come un fucile carico sulle famiglie rimaste nel Paese d’origine. Il riscatto è come l’ergastolo. E’ la negazione del futuro. E ancora la strada, bisogna tornare sulla strada per il riscatto del passaporto. Per conquistare la libertà. Di morire di fame, senza un letto e senza un protettore, ma senza debiti.
Da libere e senza il trucco del lavoro di strada il volto ha solo sfregi e il cervello rattrappisce senza la parrucca.
Da libere non si sa che cosa fare.
Lei ha pianto quando ha capito che la madame era una donna d’affari. Ha affondato la faccia in un cuscino di lacrime quando ha sentito gli anelli e le unghie affilate strisciarle la guancia.
Se ne è andata via dal rimbombo di risate isteriche di quella casa dove l’avevano parcheggiata. Via dalle ombre dei corpi sbocciati e appassiti in un momento, via dalle stanze cupe di assenza durante la notte. Ha corso per le strade fredde di una città sconosciuta. E si è infilata in un ufficio pubblico, dove qualcuno le ha scritto un nome e un numero di telefono su un pezzo di carta. Ha pianto addosso all’assistente sociale, ha urlato a voce alta come una bambina sperduta.
L’accoglienza, la consegna del telefono, l’ultima comunicazione con la madame che l’aveva rintracciata: ti strappo le unghie dalle dita se ti incontro, le ha urlato dal telefono dell’hub, quando fingendosi una sua parente l’ha raggiunta anche lì. Impossibile sentirsi liberi senza sapere dove andare e che cosa fare. La madame conosce questo stato d’animo. Alle ragazze lei propone un salvagente: i soldi, la strada. L’hub puzza meno degli uomini del marciapiede. All’hub dormono due operatrici tutte le notti e hanno organizzato una sezione femminile dove gli uomini non entrano. All’hub si dorme al caldo. Dall’hub vorrebbe andarsene dopo avere trovato un lavoro.
Nel suo Paese faceva la contabile in un ufficio. Difficile raggiungere il lavoro dal villaggio. Il taxista ogni giorno chiedeva una tariffa più alta. La famiglia aveva bisogno di soldi dopo la morte di suo padre. La madame sembrava avere le soluzioni a tutti i problemi. L’aveva conosciuta per caso, al villaggio. L’aveva abbracciata con un calore umano rassicurante. Una partenza sorridente per l’Europa, per l’Italia. Anche se le era sembrato strano doverle consegnare il passaporto. Il tepore affettuoso dell’inizio è sbiadito durante il viaggio fino al mare. Poi la madame si è allontanata e l’ha lasciata in una casa di passaggio dove gli uomini l’hanno presa e le hanno fatto male.
Male nel corpo, devastato il futuro.
Da qui, da lontano, la sua storia è uguale a mille altre. Stesse storie, stessa parrucca.
In struttura la toglie, la parrucca. Per motivi di igiene e sicurezza. Alla struttura arriva in taxi, con un autista del suo Paese. Le chiede poco più di dieci euro per andare e tornare. Quando ritorna dal lavoro è troppo stanca per parlare. Sale sulla macchina, guarda fuori dal finestrino e paga. All’inizio del lavoro a turni le sembrava di avere tempo libero. Dopo qualche settimana, la stanchezza ha invaso il tempo di lavoro. E il pensiero del lavoro ha tracimato fuori dal turno.
Al lavoro, un’ospite la offende ogni volta che la mette a letto. Le dice: bestia; le sputa: nera; urla: torna da dove sei venuta. Lei sorride e le chiede se era buona la pasta al pomodoro, le dice di bere; le dice che i fiori sul suo comodino sono belli, le prende la mano. La vecchia tace e comincia di nuovo.
Alla sera sul cuscino, chiude gli occhi e sente il disco rotto delle offese, lo sente amplificato dentro le orecchie mentre vede la faccia della donna calare dal soffitto e avvicinarsi al rallentatore, entrare nel lampadario ed eruttare dalla bocca una cascata di lava vulcanica sul letto.
Durante il turno, lei spegne il telefono. Ma il collega della notte passa il tempo con la mano sinistra sempre impegnata. Parla e ride in continuazione e prende giro i vecchi con qualcuno dall’altra parte del cellulare. Mentre lava gli ospiti, li trasferisce dalle carrozzine al letto, li lega al letto quando si muovono troppo e lo chiamano. Lui continua a parlare al telefono e con la mano libera seda le urla, annulla le voci.
Li colpisce alla testa, li copre con i cuscini e batte con i pugni in modo casuale quei corpi che si dimenano e si fermano sconfitti sulla superficie gommosa dei materassi ad acqua.
Le urla entrano nel sonno, gli occhi spalancati senza ciglia, l’aureola di capelli libera dalla parrucca imperlata di sudore. Non dorme da settimane. Lo dice a una collega. E a un’operatrice dell’hub. Vai alla caserma dei carabinieri, denuncialo. Questa sera non è successo. Non ho visto. Forse non succede più. Aspetto domani per la denuncia dai carabinieri. Oggi li ha picchiati, ma stavo prendendo un caffè in cucina. Forse mi sono sbagliata e ho capito male. Questa notte li ha picchiati ancora.
Oggi la coordinatrice l’ha chiamata e le ha detto che la vecchia non la vuole più. Dice che di notte lei la picchia. La coordinatrice l’ha strattonata, le ha detto che deve lavorare con serietà e che la licenzia se continua a picchiare gli ospiti.
Di nuovo si è sentita sulla strada. Ha visto le luci dei fari riflessi sull’asfalto lucido, le lunghe ombre del passato. Lo spettro della madame.
La coordinatrice le ha detto che tutti ridono di lei, delle sue camicette strizzate sul seno abbondante, della parrucca e delle ciglia finte che indossa quando se ne va dal lavoro. Delle ciabatte di pelo in estate, dei fianchi fasciati dalle pantacalze. Ridono dello sfregio sulla guancia. Ridono di lei le figlie degli ospiti, i colleghi, le infermiere. E’ una figura da circo. Lei ha ricacciato il pianto in gola e ha pensato all’operatrice dell’hub che le ha sempre detto di smetterla si travestirsi e di vestirsi da ragazza. L’operatrice dell’hub non ride, non urla. Non scherza. Non picchia. Neanche con le parole.
In un fiato ha detto alla coordinatrice che l’operatore notturno picchia i vecchi. E le ha detto come li picchia e quando lo fa. Le ha urlato che un capo vero non ha bisogno di una operatrice che fa la spia.
Di colpo, il silenzio diventa gentilezza.
E cominciano a nuotare in sincrono le parole. La coordinatrice l’ascolta. E lei parla delle notti senza silenzio e di quelle senza sonno infestate dagli incubi. E’ una ragazza che parla a una giovane donna. Fra di loro, qualche anno di differenza. Secoli di dolore di distanza.
Un sonno senza sogni, durante la notte. Un nuovo incubo, di giorno. Devi ritirare le accuse al collega, devi scusarti con lui. Hai detto cose false. Devi chiedere scusa. Alla figlia della vecchia. E al collega del turno di notte. Altrimenti ti denuncia per calunnia.
Lui è un collega d’esperienza, sa bene come si lavora. Tu vieni dalla strada.
Rimani qui, questa sera. Dormi nel letto caldo dell’hub. Non tornare dove non stai bene. Non andare dove non credono alla tua parola. L’operatrice l’ascolta senza parlare.
Non si fanno i soldi con il dolore degli altri.
Un pianto lungo fino all’ultima spiaggia dell’Africa la fa sprofondare fino all’abisso della terra.
Vorrebbe finire dentro una scatola chiusa di legno e navigare in mare aperto senza ritorno.
Non vuole più il lavoro alla casa di riposo. La coordinatrice lo ha proposto perché i vecchi sono tanti e gli operatori sono pochi. Non l’avrebbe assunta, diversamente.
Joy si è tolta la parrucca, ha sfilato le ciglia. Elmetto e passamontagna, appesi al chiodo.
Indossa pantaloni ampi e scarpe comode. Una camicia bianca
Lavora come operaia in una fabbrica di trasformazione del pomodoro. E’ un lavoro semplice ma duro. Poche parole e molta fatica. Fa freddo anche in estate durante il turno di notte. Quasi sempre rischia di addormentarsi.
Il profilo della madame sbiadisce ogni notte.
Si addormenta e pensa alla morte come a una liberazione. La fine della pena.
E vorrebbe qualcuno a tenerle la mano, a vegliare il corpo abbandonato.
Come una donna che ha dato la luce alla vita. Come un corpo che si ferma per sempre.
(Immagine Te tamari no atua - Paul Gauguin, 1898)
_____________
Link “Lavoro Migrante” https://www.gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=lavoro%20migrante&ordering=newest&searchphrase=exact&limit=30