Lo abbiamo intervistato per parlare del suo vivacissimo metodo didattico, e siamo arrivati a esplorare il soggiorno indiano di Maria Montessori, la filosofia anti-violenta di Aldo Capitini e lo sciopero come mezzo per fermare la guerra. Temi senza tempo e questioni attualissime.
Prof. Fantini, nel 2019 La Repubblica le ha dedicato un articolo dal titolo “Fantini, che classe seduti in cerchio e con filosofia”, in cui si spiegava che nelle sue lezioni “Non c'è cattedra e in un certo senso non c'è nemmeno il professore, almeno nella percezione degli studenti. Non ci sono le classiche spiegazioni e interrogazioni: in classe si discute ciò che si è studiato a casa e i compiti scritti diventano esercizi creativi, con dialoghi immaginari tra diversi esponenti di scuole di pensiero”.
Per me l’insegnamento è stata un’avventura grandiosa, fatta di mille scoperte, fuori e anche dentro di me. Più che un metodo collaudato il mio è stato un percorso, che è emerso spontaneamente con l’esperienza e tanti tentativi più o meno felici, perché l’insegnamento (se vissuto con passione e responsabilità) è un cantiere sempre aperto in cui si sperimentano diverse modalità di ricerca, comunicazione e trasmissione.
Quando ero un professore in erba mi sentivo insicuro, insegnavo in maniera tradizionale e cattedratica, diciamo che non potevo ancora permettermi di uscire dagli schemi. Studiavo come un matto perché mi rendevo conto di quante cose non sapessi e anche perché temevo sempre di fare tremende figuracce. Poi, negli anni, lavorando sulla mia autostima, ho acquisito sicurezza e ho allargato la fantasia.
Ho capito che si poteva scardinare la gerarchia, rendere la lezione più interessante e stimolante, entusiasmando i ragazzi invece di costringerli: questo rendeva più avvincente il mio lavoro, dinamiche le lezioni e più disponibili gli studenti.
Tutto questo non significava rinunciare al mio ruolo, non esprimere valutazioni sulle verifiche o non dare compiti. Quando assegnavo alcune pagine da leggere, non le spiegavo prima: volevo che i ragazzi si facessero innanzitutto una loro idea libera dal mio condizionamento e che si sforzassero di interpretare i testi entrando direttamente in contatto con essi.
Poi, invitavo qualcuno ad esporre quanto credeva di aver compreso, lasciando ampio spazio all’esame delle difficoltà, delle incertezze e dei dubbi e, ovviamente, delle domande dell’intera classe.
Dato che non ero io a spiegare prima di loro, spesso si creavano dibattiti, confronti coinvolgenti. Ecco, questo è imparare! Imparare dai grandi poeti e filosofi, ma anche imparare ad ascoltare e farsi capire.
Chi è stato il suo maestro in questo percorso pedagogico a doppio filo?
Il mio maestro è Socrate, quindi parliamo di un insegnamento millenario: quello della dialettica e della maieutica. Il dialogo collaborativo, aperto, che esclude una posizione di superiorità netta, preferendo il mettersi a fianco. Anche per questo motivo facevo il possibile per disporre i banchi a cerchio: non si può parlare e ascoltare solo il professore e vedere la nuca dei compagni; che razza di circuito comunicativo potrebbe mai essere?
Le giustificazioni mensili? Ma che formalità... Io dicevo ai miei studenti: “se avete litigato con la fidanzata o il fidanzato o con i genitori, ecc., basta dirlo all’inizio della lezione e non abusare di pretesti falsi o sotterfugi”. E’ così che si costruisce un rapporto corretto: sulla fiducia, sul rispetto reciproco e sulla responsabilizzazione. Non sulla coercizione.
Non crede che, però, la perdita di autorità e disciplina di questo momento storico in Italia confonda i ragazzi e lasci i giovani senza punti di riferimento sociali e regole morali? Tra le recenti notizie di cronaca abbiamo letto di un giovane che ha sparato ad una professoressa con una pistola ad aria compressa. Non sono casi isolati.
Penso che un metodo troppo lassista sia inefficace come uno eccessivamente autoritario. Al concetto di autorità ho cercato di contrapporre quello di autorevolezza. Essere autoritari significa imporre, e imporre è il contrario di insegnare, di far sviluppare una vera coscienza critica.
La paura allontana lo studente dalla voglia di apprendere. E’ una cosa che ho deciso quasi subito: i ragazzi non dovevano temermi e vedermi come una minaccia, dovevano vedermi come una risorsa. Spesso ho ottenuto buoni risultati sia didattici sia umani, a volte meno, non voglio autoincensarmi. In quante circostanze, continuo a chiedermi, avrei potuto fare di più e di meglio?
La paura è il contrario della dialettica di Socrate. Socrate, infatti, era invece temuto da coloro che erano autoritari e intendevano mantenere tale autorità.
Certo, temevano di essere smascherati nella loro forza coercitiva che, in realtà, non era altro che debolezza e bluff, un inganno insomma.
Da Socrate alla scuola digitalizzata. Si va verso la scuola 4.0 prevista dal PNRR, cosa ne pensa?
Premetto che sono decisamente un paleolitico, ma ho cercato di rinnovarmi e superarmi nella tecnologia. Penso che, se adottati con intelligenza e misura, questi strumenti possano essere efficaci e utili. La lavagna elettronica, ad esempio, è un dispositivo dalle potenzialità sorprendenti, soprattutto per invogliare lo studente demotivato attraverso filmati, video, docufilm. Certo, non è il punto di arrivo, ma può essere un input: chissà che poi quel ragazzo non se ne vada in biblioteca...
E così il registro elettronico, da non tenere più chiuso nel cassetto come accadeva con il registro cartaceo personale, ma che diventa un mezzo di comunicazione con gli studenti per mandare esortazioni a fare meglio, campanelli di allarme per i più pigri, segnali di approvazione per i più collaborativi, sempre al fine di renderli più consapevoli. Nessun congegno può o deve sostituire l’insegnante ma non dobbiamo temere questi marchingegni.
Una questione preoccupante è invece quella della ChatGPT basata su intelligenza artificiale, non sappiamo davvero dove ci potrebbe portare.
Lei è anche autore del saggio Maria Montessori. Teosofica maestra di pace. Ci spiega perché l’educatrice, pedagogista, filosofa, medico e neuropsichiatra infantile sarebbe anche stata un’appartenente alla scuola teosofica della Blavatsky?
Per me la Montessori è sempre stata una figura grandiosa, spesso sottovalutata in Italia. Studiandola, ho scoperto che si era iscritta alla Società Teosofica da giovanissima e che, negli anni della Seconda guerra mondiale, è stata in India, ospite presso la sede mondiale della Società Teosofica, in Adyar, vicino Madras, invitata dal presidente George Arundale, che nutriva pronunciati interessi pedagogici e grande stima nei suoi confronti. Antica spiritualità indiana, teosofia e pedagogia del bambino come nuovo Messia, si fondevano nella sua speculazione filosofica e spirituale di altissimo livello. Una figura da mettere nell’Olimpo dei nonviolenti insieme ad Aldo Capitini, Gandhi, Don Milani e Tolstoj.
Maria Montessori si è dedicata molto al tema della pace e lo ha fatto in maniera molto carismatica ed è anche stata candidata più volte al Nobel per la Pace. Il minimo che potessi fare, insomma, era scrivere un saggio su di lei, con lo scopo di mettere in risalto aspetti della sua vita e del suo pensiero poco conosciuti, ma di fondamentale importanza.
Parliamo della guerra e verso la pace. In un suo articolo lei scrive che Aldo Capitini, filosofo che portò il movimento non violento gandhiano in Italia, affermava che “La pace è troppo importante perché possa essere lasciata nelle mani dei soli governanti” e che, di conseguenza, in ogni nazione, tutto il popolo avrebbe dovuto “continuamente e liberamente informarsi” e tutti coloro che fossero disposti ad opporsi e a resistere alla guerra avrebbero dovuto costituire una fraterna coalizione di portata internazionale per ristabilire la pace.
“Noi - scriveva Capitini nel 1964 - dobbiamo dire NO alla guerra ed essere duri come le pietre; oggi i governi, con la decisione di fare la guerra e di usare le armi atomiche e chimiche, sono infinitamente più dannosi di qualsiasi disordine della popolazione, perché un’ora di guerra atomica può distruggere la vita di tutto un popolo.” E ci ricordava che “Giacomo Matteotti, nel febbraio 1915, scrisse che tutti i lavoratori dovevano fare, se scoppiava la guerra, lo sciopero generale. Intuì che l’arma della popolazione intera davanti alla guerra è la vigilanza e la non collaborazione, il rifiuto di massa.”
Sciopero generale e non collaborazione restano il metodo non violento più efficace per contrastare una guerra. Ma oggi la situazione è paralizzante. I sindacati si sono dati da soli l’estrema unzione durante la “pestilenza”, i pochi partiti contro il sistema non riescono ad emergere, i media sono asserviti, associazionismo e volontariato ammutoliti. Il referendum “Italia per la pace” è stato censurato da quasi ogni giornale e canale.
L’opinione pubblica non sa neppure cosa pensare di questa guerra se non ciò che dice la tv. Quando c’era Matteotti le piazze erano spaccate, l’opinione pubblica non voleva la guerra e lo gridava per le strade.
Pensa che oggi uno sciopero generale contro la guerra in Ucraina potrebbe essere utile? Gran parte dell’opinione pubblica è contraria alla guerra, ma alcuni cittadini credono anche che si debbano inviare armi per ristabilire la pace...
E’ un discorso doloroso e complesso. Per esaminare la situazione attuale bisognerebbe partire da un po’ più lontano: da diversi anni è stata messa in moto una macchina “occulta” e anche molto manifesta di persuasione di massa che ci sta convincendo che l’antimilitarismo e il pacifismo sono cose da santi e da eroi d’altri tempi e non cose alla portata di tutti e doverose per tutti. Ovvero, siamo tutti, in astratto, sostenitori dei diritti umani ma, essendo concretamente realistici, di fronte “a mali estremi”, ci sentiamo chiamati a ricorrere a “estremi rimedi”. La pace diventa, così, esito paradossale della conquista tramite il conflitto. Questa operazione concettuale deriva dall’antica idea secondo cui, in questo mondo crudele e spietato, l’unica strada valida sia quella della forza. La forza per esportare la democrazia, per fermare i terroristi, per ristabilire i diritti: in questo gli Stati Uniti sono i trainatori ideologici e militari. Lo abbiamo visto con la guerra in Iraq negli anni ’90, con le operazioni NATO in Kosovo, con il post 11 settembre. I diritti umani vengono strumentalizzati come qualcosa di esclusivamente occidentale che ci fa sentire autorizzati a difendere con le armi i nostri paesi, anche portando disordine e sofferenze in altri territori.
La “psicopandemia” ha poi reso la manipolazione dell’informazione pressoché totale, fino alla rigida polarizzazione ipersemplificante che contrappone aggredito ed aggressore, come nel caso della questione della guerra in Ucraina.
Chissà se più dialettica socratica e meno ottusità e sofismi, possono ancora salvarci dal peggio.
A questo punto, possiamo soltanto cercare di fare in modo che la diffusione dello spirito della salutare dialettica socratica e del coerente e coraggioso pensiero della nonviolenza aiutino tutti noi a liberarci dall’ottusità, dai pregiudizi e dall’inclinazione sempre più diffusa alla cieca obbedienza.