Sabato, 10 Febbraio 2024 06:19

“Lavoro migrante” - Controllo di vicinato. Clandestine bike. In evidenza

Scritto da Francesca Dallatana

Di Francesca Dallatana Parma, 10 febbraio, 2024 - Esce di casa guardingo. Inforca la bicicletta.

 

La cavalca come se fosse un cavallo impazzito. La gomma anteriore svirgola sull’asfalto alla partenza. Sembra fuggire da un pericolo.

La testa incassata tra le spalle, quasi a volerla fare sparire. Tutti i giorni, alla stessa ora. Sei giorni alla settimana su sette. Anche il ritorno è regolare: dieci ore dopo, con una borsa di plastica appesa al manubrio.

Si intravede la forma di una lattina, forse di tonno oppure di fagioli. Niente da fare, qui. Se non guardare la televisione. Oppure controllare le uscite dei vicini di casa.

Di fronte, abitano in sei o forse otto persone. Escono tutti durante il giorno, ciascuno per un tempo breve. Solo il ciclista si assenta a lungo.  Due bianchi, forse italiani, entrano ogni giorno nella casa. Sono vestiti da palombaro per evitare il contagio. Non si sa se siano uomini o donne. Forse sono della Croce Rossa oppure assistenti sociali.

E’ arrivata anche un’ambulanza e ha trasportato uno di loro. Il ciclista era assente. E’ rientrato quando tutto era finito. Ha legato la bicicletta alla staccionata e si è messo la mascherina.

Dalle altre finestre, mille occhi.

Mi domando dove vada il ciclista. Forse al lavoro. In un magazzino da dove sia possibile prendere o rubare cibo.

Dalla chat WhatsApp del gruppo di controllo del vicinato, Maggio 2020.

 

Quattordici, dico quattordici giorni di quarantena-galera. Chiuso qua dentro, con tre persone con piedi e ascelle che puzzano. Io puzzo meno. La puzza dei neri è un ossessione per gli italiani e per gli assistenti sociali. Dopo quattordici giorni di naso chiuso comincio a pensare che abbiano ragione. Di certo non lo dico. Sono ingabbiato qui, senza guadagnare soldi per mia moglie che sta male e che è sola in Senegal. Sono uscito anche se non si può. Dalla galera.

Questa clausura va avanti con una o due video chiamate al giorno, con la febbre da misurare e se non lo sai fare devi imparare subito perché l’autorità sanitaria potrebbe toglierti i documenti, potrebbe darti la multa, forse potrebbe mandarti in gabbia.

E’ terrorismo psicologico, questo. Anche in Libia ti facevano paura, prima di metterti le mani addosso. Hai sempre la paura in gola.

Qui, non picchiano. Sono gentili. Parlano e basta. Ma chiedono, vogliono, impongono. Stare in casa, dire dove sei, che cosa fai, se stai bene, se hai la febbre. Se ti sei lavato. Una litania infinita con lo stesso ritmo. Gli assistenti sociali telefonano sempre, loro non si ammalano mai, un raffreddore mai, la rete funziona e chiamano e si arrabbiano se non rispondi subito e se non dici quello che devi dire, quello che vogliono sentirsi dire.

Oggi è l’ultimo giorno di quarantena. L’inferno finisce con la video-buffonata finale: due facce dall’altra parte dello schermo del telefonino del mio compagno di stanza e due voci urlanti da un altoparlante che gracchia.

Le due facce - una con barba e occhiali e quella di una donna anche lei con gli occhiali -  vogliono sapere da me dove sono andato a lavorare fino al tre di aprile, giorno del ricovero del contagiato da Covid-19, uno dei miei coinquilini, e del suo trasferimento all’ospedale. Una cattura finita con l’incarcerazione al lazzaretto. Ormai funziona così.

Io non avevo mai pensato male in wolof degli italiani, prima di oggi.

Pensavo male degli italiani, solo in italiano. E conoscendo poco la lingua li consideravo solo idioti ordinari. In wolof il pensiero si fa più articolato. E’ la lingua che vibra nel mio profondo.

Ho ripreso a pensare in wolof da quando questi due assistenti sociali vigilanti e supervisori della mia accoglienza mi hanno detto che io ho un contratto di lavoro fino al trentuno di maggio. Ho pensato male di loro. Li ho maledetti. Ho augurato loro di scomparire nell’abisso del video del telefonino. Li guardavo dentro il piccolo schermo e speravo che andasse in frantumi, che una magia facesse scomparire tutti gli italiani, e con loro anche i due operatori. E il Covid e questa galera.

Ho sognato di guadagnare soldi e di mandarli tutti in Senegal e di andarmene in un secondo e di rinascere ricco con un vestito bianco di cotone sotto il mio sole pulito come il latte.

Ho un contratto di lavoro. Me lo dicono loro. Non lo sapevo. Non ho firmato niente. Addirittura Khalid mi aveva promesso l’assunzione fra un mese, per i documenti. Khalid mi ha fatto giurare di non dire a nessuno dove lavoro, sennò niente contratto.

E allora mi sono detto: a voi due non deve interessare se io faccio lo schiavo nel magazzino di un supermercato e se mi pagano seicento euro al mese. Sono soldi per mia moglie. Prima di pagare l’affitto io devo pagare le medicine.

Pedalo per cinquanta minuti da casa fino al capannone tutti i giorni e avevo già preso due stipendi quando loro mi hanno detto del contratto di lavoro.

Quando il vecchio nigeriano che abita con noi ha cominciato a stare male abbiamo fatto finta di niente per un po’ di tempo. Non lo abbiamo detto. Fino a che ci hanno imposto di misurare la temperatura e sono anche venuti a controllare, sempre vestiti come palombari. Mi stanno addosso. Stanno addosso a tutti. Controllano. Se fossimo in galera non sarebbero così presenti e insistenti. 

Allora, dicevo che i soliti due mi stavano addosso perché non pagavo e perché il contratto di affitto della casa è scaduto.  Mi telefonavano tutte le sere. Spegnevo il telefono e loro chiamavano un mio compagno di stanza e gli dicevano: passami il senegalese, apri la telecamera, vestitevi. Pagare, devi pagare l’affitto, devi prepararti ad andare via dalla casa quando finisce l’emergenza sanitaria per il Coronavirus. Adesso, intanto che ci sei, devi dire dove vai, che cosa fai e devi pagare con i soldi che hai.

Devi cercare un contratto di lavoro, dicevano. Fino a che non hanno chiesto e mi hanno detto che io ho già un contratto di lavoro. Tutti i giorni la stessa storia, alla stessa ora, dopo cena.

E sempre durante la preghiera.

Al tempo il permesso di soggiorno per motivi umanitari era stato cancellato e io potevo solo chiedere la trasformazione in un altro permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Ma se io ti dico che ho un lavoro, tu mi fai uscire dalla casa e io senza un tetto dove dormo? Devo pagare per un posto letto, anche per quelli a turni: otto ore di letto e poi arriva un altro a dormirci dentro. Se invece mi trovo una casa da solo - difficilissimo in questa città dell’Italia del nord-  dei seicento euro guadagnati da Khalid ne devo dare cinquecento per l’affitto al padrone di casa. E in Senegal non mando niente.

Allora, io ti dico che lavoro in nero e che non mi pagano, anzi ti dico: lavoro in nero quindi mi pagano quando vogliono e quanto vogliono e se vogliono.

Non mi vede nessuno quando esco. Io non parlo.

Gli occhiali-donna e il barbuto parlano in continuazione del diritto alla salute e mi ricordano che il Paese, cioè l’Italia, è in crisi economica e che il momento è delicato e che i lazzaretti sono pieni. E che gli italiani non hanno più soldi e che il decreto sicurezza potrebbe diventare anche più duro. E tanto il permesso di soggiorno per motivi umanitari lo hanno già cancellato.

Che antipatici, questi due.

Io un contratto non l’ho firmato. Anche se Khalid ha voluto il protocollo Inps del certificato medico, oggi. Per questi giorni di quarantena. Non ho capito il perché.

Anche loro, questi operatori sanitari sembrano impazziti.

Devono assolutamente sapere dove lavoro. Perché in casa con me c’è un ammalato, un positivo al Coronavirus.

Non mi aspettavo di avere un contratto. Non lo credevo. Non ti pagano come dovrebbero, mi hanno detto.

Che cosa mi importa se mi ha fatto il contratto e non me lo ha dato e se mi paga di meno e se mi ha chiesto la metà dei miei primi seicento euro, sempre a mano e in contanti.

Io alla barba con occhiali e orecchini e agli occhiali-donna non dico niente.

Devo mandare i soldi a mia moglie per le medicine. La mia galera-quarantena oggi è finita.

Al lavoro io vado sempre senza mascherina. Ricomincio domani. In clandestinità. Sono uscito anche durante la quarantena. Dalla finestra al balcone, poi un salto in giardino. Ho cambiato orario: uscivo prima del solito e rientravo dopo. Parcheggiavo in un altro posto. Niente mascherina, prima. E neanche adesso. Se non mi sento bene, tampone solo se la malattia è evidente. Altrimenti continuo a pedalare.  

Lavoro nel magazzino di un grande supermercato.

Dal diario di bordo di sopravvivenza quotidiana durante la pandemia da Covid-19, Maggio 2020.

 

Dopo l’arrivo dell’ambulanza, gli extracomunitari sono usciti molto meno. Il ciclista è scomparso. Forse ricoverato anche lui. Forse morto. Impossibile che uno così vada a lavorare. Forse usciva per spacciare. Non l’ho più visto. Nessuno di noi lo ha visto. Solo i palombari hanno continuato ad entrare e uscire. La bicicletta compare e scompare durante la giornata. Forse la usano tutti a turno. Vorrei sapere come vivono. Come procacciano il cibo. Da dove vengono quelle lattine dentro la borsa di plastica appesa al manubrio. I palombari non portano cibo. Il Coronavirus ha fermato il mondo. Nel silenzio dell’attesa abbiamo trovato il tempo di guardarci intorno. Abbiamo paura di quello che non conosciamo. Dalla chat WhatsApp del gruppo di controllo del vicinato, Maggio 2020.

Durante la pandemia da Coronavirus andare a lavorare in un magazzino significava rischiare di ammalarsi. Nella prima parte della pandemia sono morte molte delle persone che si sono ammalate. Non sono un eroe. Ma uno che ha bisogno di denaro per comperare medicine. Dal diario di bordo di sopravvivenza quotidiana durante la pandemia da Covid-19, Maggio 2020.

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(Link rubrica: lavoro migrante  https://www.gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=lavoro%20migrante&ordering=newest&searchphrase=exact&limit=30 )

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