Sono un migrante da generazioni.
Ho paura degli spazi chiusi. E dei militari vestiti di nero accompagnati dai cani lupo. Con gli occhi freddi e di razza bianca. I treni mi ricordano la deportazione dei nostri padri.
Mi sveglio di colpo quando li sogno. Succede spesso.
Viviamo in roulotte. Una villa sulle ruote, per il comfort, per la modernità delle attrezzature. Guido un grande camion. Un autoarticolato. Portiamo in giro le macchine del divertimento e delle sfide estreme.
Dovrei parlarne al passato.
Ci spostiamo di città in città. Italia, Francia, Slovenia. Parcheggiamo i mezzi in uno spazio aperto non lontano dal centro. Ci vedono dalle tangenziali. Dalle macchine, gli occhi dei bambini si fermano sui led delle scritte degli stand. Sono ipnotizzati dalle luci strobo. Nei giorni di festa siamo clown, organizzatori, addetti alla sicurezza, montatori meccanici, cassieri e baristi. Siamo tutto quello che si può essere in una vita intera, in un pomeriggio di lavoro.
Pascoliamo intorno alle città. Spiamo l’essenza delle classi sociali. Vediamo senza essere osservati tutto ciò che sfugge. Non si presta attenzione ai guitti. E noi siamo ad un gradino più in basso. Le persone ci temono solo per i furti. A lungo, ho lavorato migrando.
Fino a che una pedana, durante le operazioni di smontaggio, mi ha tranciato un piede a pochi centimetri dalla caviglia. All’ospedale hanno fatto come hanno potuto. Cammino a fatica.
Mi sono fermato. Il gruppo congelato nell’attesa del mio ritorno al lavoro. Nel frattempo le giostre sono diventate ferro vecchio. Senza cura e nessuna manutenzione. Da tempo facevamo fatica. Sempre più difficile chiedere le autorizzazioni. Costosa la manutenzione dei grandi giocattoli meccanici per garantire la sicurezza. Meno persone al parco giochi.
Lo stacco dalla gravità e il senso di vuoto nello schiocco delle orecchie non attiva più la produzione di adrenalina. La chimica del cervello è cambiata.
La giostra in arrivo da lontano con il banditore a richiamare l’attenzione è diventata un gioco vecchio. Roba in bianco e nero. Abbiamo girato l’Europa con l’autoarticolato che ho svenduto. Con al seguito le giostre, poi regalate a un’azienda che si occupa di manutenzioni e di ricambi.
Senza un piede non si lavora. Ci siamo ritirati su una roulotte, quella piccola. Siamo mia moglie ed io, mia figlia, il suo fidanzato e il loro bambino. Mia figlia ha meno di vent’anni. Non ha finito la scuola dell’obbligo. E’ minorenne. Eravamo sempre in giro. Ha incontrato uno zingaro come me. Si è innamorata della strada e di lui. Il bambino è molto piccolo. Non ha niente.
Noi portavamo in giro le macchine del divertimento. E non abbiamo giochi per lui. Per passare il tempo sbatte i coperchi delle pentole, uno contro l’altro. Clang, clang. Tiriamo i sassi.
Ho parcheggiato la roulotte vicino alla sponda sassosa del letto del fiume in secca. Dall’altra parte della strada ci sono le fabbriche. Non diamo nell’occhio. Faccio qualche traffico per sopravvivere. Dobbiamo mangiare. Mia moglie ha cercato lavoro. Nessuno la vuole in casa a fare le pulizie. Il ragazzo è andato alle fabbriche a chiedere. Ma non lo hanno chiamato.
Noi siamo “i nomadi” per la gente.
Di notte fa freddo in roulotte. Fa freddo anche di giorno, anche se il sole picchia duro sul tettuccio.
Mangiamo il cibo spazzatura che riesco a racimolare. E quello che mi porta mia sorella. Lei ha un lavoro di poche ore e abita in una casa normale. Mi ha invitato da lei. Noi siamo tanti. Non la voglio mettere in difficoltà con i vicini.
E al chiuso, in una casa di mattoni, non so per quanto tempo resisterei.
Ogni giorno vado avanti con la mia ricerca di espedienti e di idee per la sopravvivenza. Mia moglie è andata a menghel (a chiedere l’elemosina, ndr) in una città vicina. Non lo aveva mai fatto.
In una fredda mattina di gennaio si è presentata alla roulotte un’assistente sociale. Sola. Nessun accompagnatore maschio. Nessuna divisa. Quelle, soprattutto vigili urbani, le vediamo da lontano. Si avvicinano quanto basta per osservare i nostri movimenti senza creare possibilità di contatto.
Ha bussato. Mi ha dato la mano. Si è presentata. Non sorrideva ma non aveva paura. E’ entrata. Mi ha detto di chiamare mia moglie. Si è seduta sul letto.
Non si è guardata intorno, anche se ho avuto l’impressione che abbia visto e osservato ogni oggetto. Ci siamo seduti tutti e tre. Abbiamo ripiegato le labbra sulle gengive per sorriderle.
Avete delle responsabilità, ha detto. Ci sono due minori. Una deve andare alla scuola dell’obbligo e il bambino alla scuola materna. Fa freddo per un bambino. E anche per voi. Avete bisogno di una casa.
Io non ci avevo mai pensato. Non sono capace di chiedere. Quando ho bisogno di qualcosa, prendo. Sono abituato a vivere con la miseria dei miei furti.
Quando vivi per la strada, i soldi sono sempre pochi anche quando sono molti. Non bastano mai per rimpiazzare il riposo, il caldo, il pulito. Quando hai freddo sei sempre sporco.
Ho guardato il bambino, seduto fuori su un sasso. La testa reclinata in avanti, le braccia tese a cercare qualcosa fra la ghiaia. Mia figlia, in piedi dietro di lui, le braccia magre lungo il corpo, le ginocchia appuntite. E’ una ragazza, sembra una bambina.
Forse per loro ci sarà un futuro diverso. Un tempo meno freddo di questo.
Ho dato la mano all’assistente sociale. Che cosa devo fare, le ho chiesto. Facciamo un progetto: le cure per il suo piede, una casa, i bambini a scuola, un lavoro per sua moglie e per il giovane uomo.
Mi sono lavato con l’acqua fredda per andare in Comune a firmare il progetto. L’assistente sociale rideva. Le ho visto i denti. Mi ha portato dal Sindaco. Mi ha presentato. Mia figlia va a scuola, gli ho detto. Per la prima volta mi sono sentito importante. Il Sindaco mi ha stretto il braccio con la mano. L’assistente sociale mi ha fatto firmare il progetto. Sono tornato alla roulotte con un pacco pieno di roba da mangiare. Mia moglie ha cucinato gli spaghetti al pomodoro.
Da quando ho firmato il progetto non ho più rubato. Mia moglie non è più andata a menghel. Abbiamo detto che vogliamo lavorare, guadagnare i soldi che ci servono per vivere. Ma non è arrivato niente. Neanche qualche ora di pulizie. Solo pacchi di roba da mangiare.
Il tempo dell’attesa è passato tra le visite dei medici e gli appuntamenti con la donna del Comune per sapere della casa.
A settembre è cominciata la scuola. La ragazza non è contenta. Non ha vestiti come le altre. Niente acqua calda, da noi. Lei è la più grande Ha già un figlio. Ha il seno rotondo. Lo sguardo sfuggente di chi ha paura. A lei non di avvicina nessuno. I ragazzi sanno essere feroci. La osservano da lontano e ridono e voltano via la faccia. Piange quando torna. Ha pochi anni più di loro. Non l’ha mai invitata nessuno a casa oppure in gruppo a fare qualcosa da giovane. Siamo ancora sulla roulotte. La casa non è pronta per noi. Mi sento meglio ma non so stare fermo. Questa è una condizione che non conosco. Aspettare che qualcun altro faccia cose per te.
Sono andato in Comune un sabato mattina. Alla fine di settembre. Una processione di persone dall’ingresso fino al piano dell’ufficio del Sindaco. Tutti in fila. Borbottano. Cupi in volto. Non vicino a casa mia. Quelli rubano. Portano altri zingari. Non siamo più sicuri a casa nostra. La figlia è rimasta incinta a quindici anni. Hanno macchine grosse e rotoli di banconote di grossa taglia in tasca. Ci sono file di macchine grosse al fiume. Sono violenti. Lui è un nomade. Uno zingaro.
Dalle scale scende l’assistente sociale. Ha grumi di rabbia sugli occhi. Mi vede da lontano. Della processione non mi ha riconosciuto nessuno.
Non mi conoscono, ma non mi vogliono.
Non hanno mai visto mia figlia e neanche mia moglie e il bambino.
Non ci vogliono. A vivere in un appartamento più in là, sullo stesso pianerottolo. In una casa popolare.
Negano il diritto di dormire con un tetto sulla testa a un bambino.
Questo è il popolo.
Il Sindaco li ha rassicurati. Non abiteranno vicino a voi. Li terremo separati. Lontani dal popolo. Li terremo al confine. Li chiudiamo in uno spazio protetto. In un campo. Con il filo spinato intorno. Questo non lo dice ma io lo sento con le orecchie della memoria.
Ritorno alla roulotte. Mi stendo sul letto. Cerco di dormire. Vado alla stazione, prendo il treno e raggiungo con mia moglie e altre donne la città vicina. Loro vanno a menghel. Io le aspetto al bar della stazione.
Quando mandavo la gente sul calcinculo tutti avevano un sorriso e una parola per me. Per la durata del clac dell’allaccio della cintura di sicurezza. Per dimenticarmi subito dopo, a gambe levate, a nuoto nel cielo.
Fine del giro di giostra, fine delle parole.
Ho pianto con il pensiero immaginando mia figlia al centro del dileggio a scuola.
L’assistente sociale è ritornata alla roulotte. Il Comune ha una casa per noi.
Una casa autonoma con un pezzo di terra di fronte. E’ vecchia ma ci sono i mobili e acqua, luce e gas. E’ per noi, soli. E’ vicino al centro ma è abbastanza lontana dalle altre case.
Tiene gli occhi bassi. Chiede di mia figlia. Deve continuare la scuola e deve conseguire la licenza media, dice.
Abbiamo trasferito le nostre cose. E’ importante avere l’acqua calda per mia figlia. Perché deve andare a scuola. Io non posso dormire tra i muri. Ho parcheggiato la roulotte nella terra di fronte alla casa. Dormo al freddo e da solo sul mio vecchio letto.
Mi ricorda la vita di giostra. Quando migravo per lavoro. E annusavo il futuro.
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(Link rubrica: lavoro migrante ” https://www.gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=lavoro%20migrante&ordering=newest&searchphrase=exact&limit=30 )