Una predestinazione genetica.
Per due volte alla settimana, mio padre attraversava il Paso internacional los libertadores. Portava merci in Cile. Guidava un camion vecchio, con il cofano squadrato e gli spigoli arrotondati. Le gomme si arrampicavano per la spirale di curve e lui teneva lo sguardo fisso sul perimetro del cofano, per controllare la presa sulla strada.
Era il lavoro che poteva permettersi, appena arrivato. Parlava un ridicolo itagnolo. Malediceva la strada e la vita in tedesco. E si capiva da solo.
Le curve erano il bordo del vuoto. Della fine. Della disoccupazione.
Il motore prendeva respiro dalla terra che sbuffava fuori zolle dispettose, trattenute da una sottile pellicola di asfalto. Si trascinava dietro il carico ansimando e sbuffando neri fumi di combustibili clandestini.
Ci sentivamo illegali. Anche se avevamo i documenti. Nella terra infinita dove tutto sembra possibile, dove gli incidenti sono tragedie e la felicità è breve e forte da stordire il cervello in una ubriacatura di adrenalina, definitiva come una pugnalata alla giugulare.
L’attenzione dell’autista era degna di un neurochirurgo. Se intravedeva il vuoto di sotto, orientava il volante e lo sguardo al centro. Evitava la vertigine.
Respiro sospeso. Cervello in folle. Arti azionati dal pilota automatico.
Si sentiva risucchiato dalla forza di gravità ogni volta che saliva le scale. Quando camminava in una strada in salita. Il lavoro aveva compromesso la normalità.
Non poteva consentire alla paura di vincere, in bilico su per le caracoles verso il confine. E tutta quella chimica, shakerata con il disgusto per il ritorno alla povertà della casa di Mendoza, dava alla testa e si trasformava in rabbia.
Mio padre urlava per tutto e con tutti noi. Era il centro dell’attenzione della famiglia ogni volta che il confine lo restituiva di ritorno da Santiago. Sputava fuori fiato e sudore freddo trattenuto sotto pelle ogni volta che la strada lo strattonava lontano dal ground zero, dal piano terra della montagna.
Si era trasferito per dimostrare. Per caso aveva raccolto mia madre alla stazione di Roma Termini, durante una delle sue trasferte dall’Abruzzo alla ricerca di lavoro come domestica. Facile irretirla nel velo dell’infatuazione. Lui era un tedesco di seconda mano. Formalmente negato dal genitore d’Oltralpe e proveniente dalla Germania residuale e accasciata ai piedi dei monti prima del confine italiano. Figlio di una donna di baita, sopravvissuta alla eco insidiosa delle litanie rimbalzate tra il sagrato della chiesa del paese e i prati dove andava a cercare il silenzio del batticuore inferto dal tedesco.
Nello straccio di terra germanica dove gli era capitato di nascere era osservato con sospetto. Per questo motivo si era spinto a sud, nella speranza di allontanarsi dal gesto violento che aveva inquinato la baita e scosso il ritmo della vita a sua madre.
Cercava pace ma seminava terrore e violenza. L’Argentina era sfida e trofeo.
Aveva bisogno di un’arena.
Mio padre era un uomo nero di rabbia. Picchiava duro, soprattutto me. Sulla testa. Le gambe, con la cinghia.
Quando non dimostravo di essere il figlio fedele e perfetto che lui pretendeva. Bastava un gesto fuori controllo. Le mani si alzavano e mi frustava con un furore che ho visto solo in sud America. Quando mi batteva lui era un germanico.
Andavo a cavallo senza sella come gli argentini nativi. Mi calavo a picco con gli sci alla ricerca dell’ubriacatura da vertigine. Da quando ero bambino. Il cielo d’Argentina è più vicino alla terra. Illusione d’onnipotenza. Lo spazio amplifica la velocità del galoppo.
Verso il Paso internacional Los Libertadores occhi e cervello lavorano per sconfiggere il crollo agli inferi e per tenere fede al patto con la vita. Varcare il confine, attraversare la galleria di valico richiede concentrazione. Mio padre incontrava i carabineros dalla parte cilena per due volte ogni settimana. E per due volte ogni settimana la casa non rimandava il rimbombo della sua voce. Non parlavamo fra di noi, mia madre, mia sorella ed io. Per ascoltare il silenzio al quale non eravamo abituati.
L’insonorità dell’assenza del padre donava a noi la solitudine.
Al suo ritorno la casa doveva essere pulita, i vestiti stirati. I bambini dovevano essere impegnati con lo studio oppure, ancora meglio, con lo sport. Faceva fotografie e ci obbligava a sorridere. Spediva in Italia lettere, cartoline e fotografie commentate e descritte in lunghe didascalie sul retro, ai parenti di mia madre e al confine da dove se ne era andato per farsi osservare da lontano.
Fare l’autista di camion tra Argentina e Cile era duro. L’attenzione dedicata alle curve rendeva eterno il tempo di transito.
Quando tornava noi eravamo contenti e spaventati. Per le urla di rabbia e di paura. Io dovevo essere un uomo forte: ero un bambino. Mia sorella doveva essere fatata e leggera. Mia madre faceva le pulizie e i lavori domestici. Ma doveva esprimere in modo brillante gratitudine per chi l’aveva deportata illudendola con la chimica dell’innamoramento. Avevo più di vent’anni quando ci siamo traferiti in Italia. Guadagnava sempre meno e io non avevo trovato una strada. Il vecchio non ce la faceva più ad andare e tornare. Ad ogni sconfinamento il Cile lo rimandava indietro con le ossa rotte.
Il Sud America non è posto per vecchi. E lo si diventa presto.
In Argentina non avevo finito la scuola. Avevo cercato di entrare nell’esercito durante il servizio miliare. Ma tremavo ad ogni colpo di voce sparato in alto. Me ne sono andato dopo che mi hanno strusciato la bocca sullo sterco di cavallo, un gesto considerato normale dato il rispetto sacrale per l’animale.
In Argentina, mi sentivo italiano e tedesco. In Italia, mi sentivo argentino.
Sono nessuno in Europa. Ero nessuno in sud America.
Con uno sguardo disperso. E un sorriso abbozzato. Le spalle tornite, guizzi di muscoli sotto pelle.
In Italia avevo trovato lavoro come facchino. Il vecchio non aveva più la forza di battermi. Facevo traslochi. Tra un carico e un altro avevo capito che avrei potuto lavorare con le parole e con spiragli di sorrisi.
Una donna, la prima possibilità a presentarsi.
Aveva un’agenzia immobiliare, una villetta a schiera in Brianza con il giardino, una barca ormeggiata al lago. Più vecchia di me, mi ha insegnato un lavoro: vendere case. Dal lavoro di fatica alla vendita di soluzioni abitative, si chiamano così. Il mio mondo era cambiato. Vedevo altre facce, maneggiavo soldi: erano tempi diversi e io mi facevo consegnare subito i compensi per i servizi commerciali, qualche volta le somme per la caparra. Ci si poteva fidare di me. Il primo anno di lavoro è stato pulito. Poi, ho cominciato a corteggiare i clienti, a invitarli all’aperitivo, a costruire rapporti più stretti. La vendita della casa oppure la ricerca di una casa in affitto finiva nella ragnatela di un rapporto che gestivo tra telefonate, messaggi e aspettative che alimentavo. Nel rincorrersi di parole, chiedevo regali, soldi in prestito, affittavo il mio corpo levigato e sodo. Il gioco della conquista e del denaro era diventato insinuante e più produttivo della vendita delle case. La donna mi fece trovare la porta aperta dopo avere provato a parlare di noi due con me.
Mio padre era orgoglioso di me, per l’auto acquistata, per il lavoro. Per tutto quello che di me finalmente poteva raccontare.
Una nuova società immobiliare era diventata la mia casa e il mio lavoro. Dopo la liberazione dalla vecchia donna dell’agenzia, la vita ricominciava in modo frizzante. La vita sociale degli ultimi anni Ottanta, aveva messo in penombra il lavoro. Ma la giustizia in Italia è lenta. E io potevo permettermi di vivere la vita che in Argentina mi era stata negata e di sperperare i finanziamenti destinati alla società. Macchine e donne, donne e i loro soldi, uomini ricchi in cerca di compagnia.
Negli uomini cercavo mio padre. Nelle donne, la tolleranza di mia madre.
Ero un uomo salato. L’antipasto di una ubriacatura dall’onda lunga. Spendevo i soldi trafficati alle donne rapite dai miei sfuggenti sorrisi. Fagocitavo pasti pantagruelici di sesso e denaro. Furti a mani basse. Intuivo le ferite e arpionavo nel profondo. Me ne andavo e ritornavo. Avevo imparato a usare le persone. Instillavo in modo calibrato e preciso il silenzio dell’attesa. Ho lavorato per anni. Sedevo alla scrivania dell’ufficio dell’agenzia immobiliare per qualche ora alla settimana, il tempo di fare qualche visita, qualche telefonata, dare una risposta a un cliente.
La truffa dà dipendenza. E la dipendenza porta all’assuefazione.
Fare l’agente immobiliare era una distrazione.
Poi la banca mi ha chiamato. Ha chiuso il conto corrente. I carabinieri mi hanno convocato. E mi hanno comunicato una denuncia. Mi è arrivato un avviso di garanzia. Un fornitore ha chiesto il fallimento.
Qualcuna delle donne ha continuato a darmi soldi. Uno degli uomini mi ha promesso la morte se non gli restituisco il prestito. Mi sono reso irreperibile. Sono scaduti i documenti.
Ho continuato a sorridere e a vivere di espedienti. Ho dormito in automobile e sono finito a battere sulla strada. Fino a che un carabiniere mi ha liberato dalla fatica della sopravvivenza.
Un mandato di cattura per bancarotta fraudolenta. Condannato in contumacia.
Il carcere è freddo e puzza di sterco.
Sogno lo sterco di cavallo dell’esercito argentino. Di uscire e di bestemmiare guidando. In spagnolo.
Verso il Paso internacional los libertadores. Santiago, da un carcere del nord Italia.
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(Link rubrica: lavoro migrante ” https://www.gazzettadellemilia.it/component/search/?searchword=lavoro%20migrante&ordering=newest&searchphrase=exact&limit=30