Sono diventata cittadina ucraina nel 1994. Mi sono trasferita in Ucraina molto prima, per amore e per matrimonio. Ero ancora sposata quando mi hanno detto di scegliere la cittadinanza. Quando la Storia ha annullato il passaporto CCCP. Mi sono trasferita a L’vov dopo l’Università a Leningrado, dove ho conosciuto l’uomo della mia vita. A un certo punto l’amore è sbiadito e il nodo del matrimonio si è allentato fino a sciogliersi. Quando l’Unione sovietica si è frantumata come un coccio di bottiglia sotto i piedi, avevo già scelto il passaporto ucraino, per opportunismo: l’Ucraina è più vicina all’Europa.
Ma sono russa e morirò da russa.
Poi, i russi sono ritornati. Rumorosi, violenti e sgangherati. Ma diretti al punto. Chi ha potuto se ne è andato. Lo spostamento sul territorio è sempre stato un nostro tratto distintivo. Quando dico “nostro” intendo: di noi slavi. Ci siamo rincorsi a gruppi per migliaia di chilometri, conquistando, catturando, fuggendo. Per secoli. Fino a che un unico grande recinto politico è diventato il nostro confine, il limite tra due mondi: Occidente e Unione Sovietica. E dentro il continente contenuto dalla cortina di freddo e ferro ci siamo mischiati, traditi, trucidati. Odiati e amati senza sapere come fosse possibile. Abbiamo vissuto insieme nella contraddizione delle differenze, ma anche nell’energia vitale di un nuovo inizio.
Molti sapevano dove andare, nel febbraio 2022. Quando i russi hanno sferrato l’operazione speciale. In parecchi sono tornati nei luoghi dove avevano già lavorato oppure dove vivono loro parenti. Anche io me ne sono andata.
Puttana africana ritorna in Siberia: è questa la tua casa. Mi diceva mia madre da quattro fusi orari a est di L’vov. Quelli credono di essere europei perché sono al confine polacco. Sono un’imitazione dei russi. Sono solo un riflesso imbrogliato dal vapore di uno specchio rotto e vecchio.
Quelli sono nessuno.
Sentivo ma non ascoltavo: in questa babele confusa, ritorna in Siberia, sibilava lei al telefono. Questo è un porto sicuro. Un blocco di ghiaccio, mia madre. Appuntito e ruvido. Con gli occhi diritti come i miei.
Ho lavorato per la televisione ucraina come interprete per i non udenti. Mi conoscevano tutti. Mio marito era un giornalista. Avevamo una casa che tracimava di libri e di dischi. A Leningrado tra di noi era scoppiato un entusiasmo intellettuale ad alto voltaggio ormonale. Impossibile ritornare in Siberia senza di lui. Non siamo andati sulla luna in bicicletta, ma avremmo potuto. Ci siamo fermati prima, nell’Ucraina sovietica. In Unione Sovietica eravamo tutti giovani. Con energia da ricaricare un arsenale. Forse per questo, nonostante le sbavature evidenti, siamo andati avanti così a lungo. Ci spostavamo da una parte all’altra senza frontiere. Tra di noi, diversi colori della pelle. Diversi accenti. Il perenne leggero dileggio tra sud e nord. Il nord che guarda il sud con superiore sufficienza. Il sud che guarda il nord con venature di invidia e qualche volta con risentimento.
Sono diventata ucraina, quando i fumi dell’alcol alitavano fuori da bulimico orso siberiano in posizione di potere a Mosca. Dopo il fallito flirt di Gorbachev con l’Occidente.
Fine dell’Unione Sovietica. Fine della Storia.
Non si viveva più. La grande migrazione dall’Ucraina, e non era la prima, è avvenuta intorno al duemila. Molte di noi hanno attraversato i binari di Tchop e si sono dirette in Polonia, in Slovenia e anche in Italia.
Alla frontiera di Tchop un bambino zingaro mi aveva appoggiato le mani sulla borsa a tracolla. L’ho spazzato via con un ceffone.
Sola, con un figlio molto giovane e un ex marito consegnato all’alcolismo, avevo bisogno di soldi subito. Con le mie gambe, facile trovare lavoro in un night club in Italia come entreneuse. Una entreneuse è una puttana di lusso, per la classe media. Ci facevano ballare o passeggiare completamente nude fra i tavoli, tra crocicchi di uomini sudaticci dalle mani tremanti. Uomini adulti e vecchi affittavano e si scambiavano per scampoli di tempo i nostri corpi, li strappavano e li rompevano come un giocattolo vecchio. Qualche volta qualcuno si metteva in testa di salvare una di noi da quella bolgia infernale, dove mani clandestine frugavano corpi riottosi. Più di una volta è nata un’amicizia opportunista. Più di una volta uno degli uomini si è innamorato di noi. E alla volgarità e alla violenza si sono alternati dolci e fiori. E sempre offese di tenore volgare. Il night club non è come la strada. Al night club non c’erano le nere. Quelle stavano soprattutto sulla strada, anche se a un certo punto dell’era post sovietica sulla strada ci sono finite anche le bambine. Soprattutto quelle dei Paesi baltici, delle campagne. Alle famiglie raccontavano di concorsi di bellezza con premi milionari in Italia e in Europa e le ragazze ancora bambine partivano. Sull’asfalto il bianco etereo ha cominciato ad alternarsi al nero.
Ma quelle non eravamo noi.
Noi ce ne eravamo già andate dai night club. Quello per noi era diventato un lavoro per arrotondare.
Il secondo lavoro dopo il night club mi ha portato in una casa piccola dove viveva un uomo vecchio e solo. I familiari non si occupavano più di lui. Bavoso e petulante voleva guardarmi ballare senza vestiti. Stesse perturbazioni mentali su un palcoscenico diverso. Voglio vederti nuda, questo è il tuo lavoro, ti pago per questo, diceva. Uno spettacolo grottesco al quale mi sono sottoposta una volta sola. Poi ho cominciato a sedarlo con il vino. Beveva e beveva, piagnucolava un po’ e si addormentava. Conosco bene e so prevedere gli effetti dell’alcol, i tempi di reazione di un corpo. La casa dello studente a Leningrado era stata un osservatorio privilegiato. Una fissazione, per lui: il mio corpo. Il mio corpo era diventato fonte di reddito per me, che avevo sempre vissuto di lavoro intellettuale e mi ero nutrita di coscienza politica. Dopo questo lavoro, un altro contratto come badante dopo la morte del maniaco, un'altra vecchia vita in declino da servire. Era una donna a tratti gentile e aveva un figlio, anche lui dai modi pacati, più di una volta piacevole. Si impegnava ad essere interessante nella relazione con me. Quando la madre se ne è andata io sono rimasta nella sua casa, con il figlio. Nella stanza chiusa della nuova comoda relazione che mi era capitata, senza i libri di mio marito ucraino.
Senza musica.
Ero diventata un trofeo da esibire agli amici, come un grande animale braccato esposto esanime e sanguinante sul cofano della Jeep.
Fine della musica.
Mangiavo, dormivo, avevo tempo di riposare. Leningrado e Ulan Ude a rincorrersi nei pensieri. L’acqua del Bajkal, gli insetti letali: la vita e la morte in un adrenalinico palleggio finale in un orizzonte largo che ferma il respiro. Morte e nascita hanno come conseguenza lo stesso trauma da spaesamento, in un Paese tanto grande da impedire la vista del confine. Nel sonno, ogni notte: la neve d’inverno della Siberia, la prima neve, quella più bianca, le primavere tiepide sull’acqua trasparente del lago.
La Russia è una dipendenza.
Non te la togli più dalla testa una volta che l’hai toccata.
Me ne sono andata dalla casa e da quell’uomo incolore. Una gabbia stretta.
Il night club è ritornato come un incubo nella peggiore delle notti stanche.
Ancora alla ricerca di soldi, per mio figlio rimasto in Ucraina. Per mia madre, malandata in Siberia.
Una convivenza forzata in un appartamento grande con altre ucraine, giovani e vecchie. Alcune occupate nei night club, altre come badanti oppure assistenti all’ospedale.
Una di noi lavorava in fabbrica. Aveva trovato un modo per accettare quel manicomio di mani sudate. Era ritornata al night club nei giorni di riposo. Elegante e fine, aveva allacciato una relazione con un uomo per necessità. Lo aveva scelto per il ruolo che ricopriva dentro l’azienda e perché le avrebbe permesso di mantenere il lavoro in fabbrica. Durante lo scambio di confidenze e parole, gli affittava il corpo. Nei pomeriggi liberi, usciva con un uomo moldavo. L’italiano per il lavoro e per i soldi; il moldavo per la salute.
Eccesso russo. Sfidare l’estremo limite cancella stanchezza e pudore.
Avevamo imparato a fare cassa.
La fabbrica per me è stata una soluzione per molti mesi. Fino al mio ritorno in Siberia, per la follia che aveva travolto mia madre. Ho vagato tra la Siberia e l’Ucraina per diversi anni fino all’arrivo dei russi, nel febbraio del 2022. Nel marzo del 2022 ho varcato la frontiera insieme a molti altri ucraini.
Un’altra operazione speciale: ancora cassa.
Abbiamo ottenuto documenti validi per rimanere in Italia in modo diretto e rapido, senza le lungaggini riservate ai neri. Noi la guerra, una di quelle del Novecento, l’abbiamo vinta.
Sono ritornata dall’uomo che avevo lasciato all’improvviso. L’ho trovato cattivo e vecchio. Ho ballato per lui senza aspettare le sue richieste. Sono ritornata a lavorare in fabbrica con contratti brevi. E lui ha garantito per me per l’acquisto di una piccola automobile. Mi ha cointestato un conto. Ho continuato a ballare e ho cominciato a sedarlo con una vodka raffinata. Poi ho venduto l’auto, ho racimolato tutto il denaro che ho potuto e ho aperto un conto corrente. Sono tornata in Ucraina nel mese di settembre del 2023.
Alla frontiera ferroviaria di Tchop ho incontrato un giovane zingaro offeso da un’arma da guerra. Zoppo e ubriaco. L’ho accompagnato a casa, una catapecchia in rovina alla periferia della città dove vive con bambini macilenti e una donna disperata. Vivono nella mia casa in campagna, adesso. Nella dacia dove ci ritiravamo al sabato e alla domenica, mio marito ed io. Nella mia vita precedente, una vita diversa.
Ho usato i soldi italiani per rimettere in sesto la vita: quella di mio figlio e la mia, la dacia per gli zingari.
Non pensa in piccolo chi appartiene a un Paese grande.
Operazione speciale. Commozione russa.
Io, Vera, sono ritornata nella terra delle Russie.
E la Russia è ritornata dentro di me fino al suo ultimo confine ucraino.
(Link rubrica: lavoro migrante)
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